Scritto per un convegno sull’emigrazione a Limina

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Nulla terra exilium est sed altera patria. (Seneca)

di Sebastiano Saglimbeni

Anonimo Messinese – Donna al Faro – Olio su tela, cm 50 x 60

Ritengo rilevante, come incipit di questo mio scritto, la citazione di un brevissimo tratto di storia a firma di Denis Mack Smith. Questo famoso storico scrive, fra l’altro, sulla questione meridionale e sull’emigrazione in Storia d’Italia 1861-1958 che “i primi emigranti erano stati viaggiatori occasionali o rifugiati politici. Mazzini, Foscolo e Rossetti erano andati in Inghilterra, il padre di Pareto in Francia, Da Ponte, il librettista di Morzat, e lo stesso Garibaldi in America”. E più avanti, entrando nel vivo della questione migratoria, con limpidezza descrittiva, osserva: “In Italia il contadino povero, se non si ribellava, non aveva altra scelta che rassegnarsi al suo destino oppure emigrare. Il motivo che lo spingeva ad andarsene non era sempre soltanto la fame di terra; al contrario, la cosa acquistava piuttosto in molti casi l’aspetto di una fuga da un suolo ingrato”.

Vasta la storiografia sull’emigrazione. Alle opere firmate da storici, studiosi del fenomeno migratorio, si aggiunge una quantità di atti scritti pronunciati nei convegni promossi in diverse grandi e piccole comunità.

Il tema sull’emigrazione mi ha altre volte coinvolto, non scientificamente, avendolo solo delineato in alcuni miei testi poetici e prosastici. La storia angosciosa dell’emigrante di Limina, il mio paese natale, in provincia di Messina, la conosco un po’: si può pure leggere in alcuni canti popolari, composti da contadini e artigiani appena istruiti o addirittura analfabeti strumentali che, alcuni, oltrepassarono tanta acqua salata per andare a stabilirsi in Argentina, negli Stati Uniti d’America, in Australia, in Venezuela alla fine del 1800, all’inizio del secolo scorso e nella sua seconda metà. E’ come se li rivedessi coloro che voltarono le spalle al paese nell’immediato dopoguerra. Il giovanissimo Carmelo Cannavò, come ho scritto in un racconto, mentre si allontanava dal paese, a bordo di un carretto, che percorreva il torrente asciutto d’Agrò, per raggiungere la ferrovia di Santa Teresa di Riva, buttò un sasso nel greto esclamando: “Quando tu, sasso, ritornerai al paese, pure io ritornerò!”

Alcuni anni fa, sono stato richiesto di presenziare in un convegno sull’emigrazione siciliana nel nuovo mondo, svoltosi al mio paese, ed ho dovuto, per quella circostanza, allargare la mia conoscenza per relazionare la sera dell’8 agosto 2003, prima di sentire gli interessati a questo fenomeno Marco Cicciò, Mario Bolognari, Giuseppe Restifo, Nino Greco e Pietro Saglimbeni. Il tema esposto agilmente da queste presenze è stato libero ma con qualche sottolineatura sull’emigrazione in genere, con riguardo a quella siciliana. Si sa, la trattazione è ardua, complessa; più complessa qualora si volesse oggi svolgere quella riferita alle nuove spinte umane disperate che dalla fine del secolo scorso si avvicendano, con penosi e spesso mortali cammini dall’Africa, dall’Europa dell’Est, dall’Asia e da altri mondi dall’economia miserrima, approdando sulle rive del nostro meridione italiano per poi raggiungere da qui, speranzose, altri paesi di quell’Europa considerata come un eden. Gli emigranti di varie uscite, in tempi diversi, intus et in cute (sulla pelle e profondamente), ovviamente, hanno nei paesi di approdo forse costruito un’altra patria. Secondo un emigrante liminese, Agatino Chillemi, sarto, presente nel convegno, non hanno né una patria di approdo, né quella patria di nascita. E qui per questa valutazione del sarto dovrei dilungarmi, ma tralascio considerando positivamente che gli emigranti non perdono usi e costumi, tradizioni propri e la loro lingua italiana, bene o male parlata, e quella dialettale. Ma non sarà così per i loro figli nati altrove. La sera del convegno, nel mio breve discorso di apertura, non ho ricordato, riferito agli Stati Uniti d’America, dove continuano a riversarsi tante genti del resto del mondo, certo razzismo statunitense. Lo ricordo in questo scritto.

Richard Nixon, eletto presidente nel 1972 con molti suffragi degli emigrati italiani, ebbe a sentenziare che questi “non sono, ecco, non sono come noi” e che la diversità consisteva “nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso” e, moderandosi, un po’, che “dopo tutto non si possono rimproverare. Non si può. Non hanno mai avuto quello che abbiamo noi”. Ed ancora, ferendo: “ Il guaio è che non si riesce a trovare uno che sia onesto”. Questa valutazione del presidente Nixon sugli italiani negli Stati Uniti d’America tutta ispirata da tanta mala storia che conosciamo. Mala storia, pure minore, sugli italiani approdati in altri paesi europei. Dunque, secondo Nixon, gli italiani nel suo estesissimo Paese disonesti ma con i complici disonesti americani, dimenticava Nixon, al quale andava risposto: “Da quale pulpito viene la predica”. Le uscite del presidente (oggi si intendono meglio) sapevano di indubbia xenofobia. Che pare tuttora non si smorzi nei confronti degli emigranti, in special modo, italiani. Nixon pensava allo stesso modo di certi uomini della magistratura e della polizia, quelli che riuscirono ad incastrare e a condannare alla sedia elettrica i due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. O forse risuonava forte nella sua mente quel pezzo della stampa apparso sul “New York Times”, esattamente nel remoto marzo 1891. Vale ricordarlo, grazie a Gian Antonio Stella, che lo riporta nella sua opera ORDA edita da Rizzoli nell’ottobre del 2002. Questo pezzo, riferito agli italiani siciliani, recita: “Questi spioni e vigliacchi siciliani, discendenti di banditi e assassini, che hanno portato in questo paese gli istituti dei fuorilegge, le pratiche degli sgozzatori, l’omertà della società dal loro paese, sono per noi il flagello senza remissione”. E, ricordata questa scrittura tanto discreditante, tutta vera o parzialmente vera sugli italiani di Sicilia, vanno ricordati i processi, le carcerazioni, le morti, i linciaggi, di conseguenza, applicati.

Sì, l’emigrazione: nell’antica scrittura, in quella moderna e contemporanea dei poeti e degli scrittori, nell’arte, nella musica e nel cinema. La sua storia si inabissa nel buio dei tempi, con l’uomo che più non è in grado di resistere nel suo luogo di nascita e scappa, credendo di esistere meglio cambiando cielo. O, nonostante viva discretamente bene dove è nato, per sete di ingordigia.

L’emigrazione liminese, se sono bene documentato, inizia verso la fine del 1800. Si partiva dal paese, dove si sopravviveva con un po’ di pastorizia e di agricoltura per l’Argentina, per gli Stati Uniti d’America, per la Turchia (solo qualcuno, come manuale nelle gallerie).

L’emigrazione si è soprattutto sviluppata durante l’èra fascista, si è intensificata nel dopoguerra, dal 1948 in poi con partenze da Napoli e da Genova, via mare, per il Venezuela, ancora per gli Stati Uniti d’America, per l’Argentina e per l’Australia. In Germania e, alcuni, in Svizzera e in Francia, vi arrivarono coloro che non avevano atti di richiamo per i Paesi di oltre oceano. Ricordo che raggiunsero l’Argentina clandestinamente alcuni liminesi. Diversi artigiani e qualche laureato puntarono sul continente italiano, Milano e Torino, con rientri al paese di nascita nelle estati. Non ho dimenticato il loro ritorno al paese. Non parlavano più il dialetto ma l’italiano con qualche intercalare di provincialismi torinesi e milanesi. Ci portarono di nuovo certa eleganza, che contrastava con il loro pallore, e l’aria del continente. Noi studenti, rimasti al paese con panni ruvidi e scarpe ordinarie, li deridevamo affettuosamente. Da Milano, sperimentata con delusione, qualcuno raggiunge il Venezuela e gli Stati Uniti d’America.

Dicevo prima che l’angoscia di chi partiva poteva leggersi in alcuni canti che ora fanno parte della cultura popolare liminese, rigorosamente curata dal collega Giuseppe Cavarra. Io accenno appena a due canti che trascrivo riduttivi. Il primo recita:

La navi a menzu portu si pripara:
no’ sacciu, anima mia, unni mi scura;
unni mi scura, ti lu scrivu, cara:
scrìviri ti ‘urria mumentu e ura.
Sa no’ veni la morti e nni spripara,
tu si’ l’amanti mia, stanni sicura.

Il secondo, che non colgo dal lavoro di Cavarra Cultura popolare liminese (Carbone editore, Messina, 1978) recita:

Bellu maritu miu,  bellu maritu,
maritu senza nuddu mancamentu,
ti vai pigghiannu terri a lu lieri
mentri li mia cca perdunu tempu.

Tralasciando ogni commento, dico solo che il primo chiaramente esprime l’allontanamento e l’oscuramento interiore dell’amato, ma la volontà del ricordo con la scrittura e la fede promessa all’amata. Il secondo è più oscuro, più inteso con metafore. L’autrice è una donna, rimasta sola ed afflitta nella povera comunità di Limina. Un anno prima di quel convegno a Limina ho potuto ascoltare, declamati in perfetta dizione, dei testi in dialetto liminese, incentrati, soprattutto, sulla vita in Australia di un liminese, certo Filippo Ragusa, inteso Panareddu, vaccaro, zappatore al paese. Recitava i suoi testi un attore messinese, invitato dall’Amministrazione comunale liminese. Mi è parso di sentire in quei testi bene espresso il malessere dell’emigrante, lontano a vita, sia pure con qualche rientro, dal suo paese natale.

Uno dei relatori, quella sera dell’8 agosto, Mario Bolognari, docente di antropologia culturale all’Università di Messina, fra l’altro, ha ricordato il liminese Filippo Lapi, emigrante, dopo che la guerra, la prigionia ed altre avversità l’avevano tanto provato. Tutto, poi, Lapi raccontò in un libro, realizzato, grazie alla cura del professore Cavarra. Il libro nella sua pura espressività è invero una grande esperienza di vita consumata in “esilio”. Gli altri relatori, sia pure brevemente (poco di ciò che si vuole dire – è risaputo – viene fuori dai convegni), hanno partecipato ad un nutrito pubblico di liminesi in paese e di liminesi rientrati durante l’estate atipica il loro studio sull’emigrazione. Se lo riprenderanno e lo scriveranno (alcuni hanno parlato a braccio) ne verrà un titolo, un pezzo, insomma, da aggiungere ai tanti testi sulla cultura dell’emigrazione. Chi ha parlato con certa naturalezza del fenomeno migratorio liminese è stato Pietro Saglimbeni, che assaggiò, ancora ragazzo, il lavoro in Venezuela e, giovane, di più, negli Stati Uniti d’America. Opportuno l’intervento del docente virologo Letterio Bonina, che ha riferito i saluti del rettore dell’Università di Messina, professor Silvestri.

Quella sera a Limina non protagonisti noi relatori, ma quel nutrito pubblico liminese vivente al paese e quello rientrato dal Venezuela, dagli Stati Uniti d’America ed alcuni dalla Lombardia. Gli emigrati, cosiddetti, “i miricani” per i quali è stato organizzato questo convegno, il terzo a Limina, tutta gente che ha lavorato duramente, provata, tanta, dal problema della lingua, anche quando, in qualche modo, è riuscita ad afferrarla, ma di più provata dal malessere (quasi mai manifestato per orgoglio liminese) che genera la terra straniera (la stranìa, detto nel dialetto liminese). Quella sera ad ascoltare, tra gli altri, le nostre parole il laureato in giurisprudenza Sebastiano Calabrò, da molti anni nel Bristol, Conn., Stati Uniti d’America, come insegnante. Egli in America non smise di coltivare seriamente la lingua italiana e a questa aggiunse la conoscenza, con studi estenuanti, di quella statunitense per potere insegnare in una scuola il latino. Il latino insegnato in America. Non è facile. Eppure il dottore in giurisprudenza Calabrò ha vissuto emigrato lontano insegnando latino.

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