In una guerra che non volevano si comportarono onorevolmente

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Storia dei fratelli orlandini Ignazio e Antonino Sinagra Brisca

di Franca Sinagra Brisca

Sulla collina sovrastante l’abitato costiero di Capo d’Orlando (Messina), nella contrada Catutè, in una famiglia di piccoli possidenti di campagna nacquero i due fratelli Ignazio (21-12-1920 / 9-08-2008) e Antonino Sinagra Brisca (25-07-1922 /14-08-2018), che al ritorno dalla guerra sposarono donne catutiote. Avevano scelto il lavoro militare, Ignazio nei Carabinieri e Antonino nella Finanza, rifiutata l’emigrazione nelle Americhe meta preferita dalla gioventù intraprendente di allora, optando per un’offerta di lavoro subordinato ma sicuro e onorevole (come fosse un lavoro in fabbrica, questa era infatti la fabbrica nel Sud).  Mentre un loro cugino catutiota finanziere gareggiava già sulle piste da sci in Tirolo (dove il fascismo destinava i meridionali fra le etnie germanofone), alti di statura e forti uomini di campagna, a guerra già iniziata i fratelli si inserirono nel regolare servizio militare.

La loro cultura umana si fondava sul rispetto sociale e sulla difesa della legge ufficiale e morale, vera antica civiltà della convivenza per chi sa distinguere fra cultura civile e istruzione. Una nipote ricorda ancora la loro connaturata signorilità e gentilezza.

Il fatidico 8 settembre del 1943, situazione di grande sconcerto militare e civile, arrivò mentre i due si trovavano nel nord d’Italia, Ignazio in Veneto e Antonino in Piemonte.

Nella provincia contadina di Vicenza, la vallata del fiume Chiampo si estende per circa trenta km sotto il gruppo montuoso dei Lessini, oggi Parco regionale, la cui comunità montana è raggruppata in piccoli centri. Nelle vicinanze le cime del Pasubio, già martoriate vent’anni prima dalla prima guerra mondiale, che ebbe nei soldati meridionali il maggior numero di vittime.

Il nostro carabiniere Ignazio vi si trovava in servizio forse presso la stazione di Crespadoro; la storia racconta che quella valle ospitasse nuclei di partigiani fra i più attivi nel Veneto. Alla luce degli avvenimenti storici, del diploma al merito e con la considerazione della sua rischiosa posizione di militare in servizio, è concesso immaginare che Ignazio abbia avuto modo di conoscere personalmente l’onestà dei partigiani con cui era venuto in contatto in qualche modo, da tempi precedenti ai fatti stragisti avvenuti nel ’44, e con i quali agì dall’8 settembre 1943 al 1945 come partigiano combattente.

Si era unito, in qualità di Comandante di Distaccamento al Terzo gruppo “Val di Chiampo”, uno di quei gruppi partigiani che nel ’44 erano confluiti nella “Brigata e Divisione Pasubio”, composizione di cui si conosce la storia complessa, come dimostrano gli avvenimenti in quella zona di aspri e diffusi combattimenti. Non abbiamo scritti o racconti lasciati in memoria del suo vissuto. Visto che nessun partigiano scampato parlerà mai tranquillamente delle proprie azioni di combattente, è immaginabile che il ricordo fosse senz’altro pesante, come se avesse assistito a una specie di infernale apocalisse, su cui dopo la Liberazione aveva creduto opportuno chiudere per sempre la porta e non c’era nulla da vantarsi per aver fatto il proprio dovere di veri uomini. Si erano battuti contro l’esperienza terribile della guerra civile, del sopruso, della sevizie mortale nell’illegalità più totale.

Dunque pare che Ignazio non abbia lasciato testimonianze dette o scritte alla famiglia, così che in casa sono rimaste solo due immagini ben incorniciate di una veduta geografica della Val Chiampo e del “Diploma d’onore al combattente per la libertà d’Italia 1943-1945” firmato dal Presidente Francesco Cossiga e dal ministro della Difesa Giovanni Spadolini, da cui risultano il nome di battaglia “Zecca” e quello della brigata.

La scelta di quel nome fa pensare ad una volontà tesa ad azioni deliberatamente e ripetutamente incisive, originata da un vero e proprio giudizio di condanna del fascismo e del nazismo, paragonata alla insofferenza verso i problemi igienici in cui versava generalmente la popolazione, affetta da pulci e zecche, regalo della situazione di guerra (in Veneto la gente ammalata di “pellagra” era martoriata anche dalla fame più che altrove).

In questa valle i fascisti uniti ai nazisti perdenti, durante la ritirata si scatenarono in azioni di persecuzione assassina, come del resto successe in tutto il centro e il nord italiano.

Nel luglio ’44, durante la guerra civile nazifascista contro i partigiani resistenti e liberatori, viene incendiato il paese di San Pietro Mussolino, dove la strage viene ripetuta a settembre, mentre tutta la valle è un campo di battaglia. Certamente Zecca fece il suo costante servizio di ostinato impedimento e di accanito intralcio in cui si sentiva esperto, mantenendo in pectore il suo ruolo di carabiniere e la sua fede alla patria, basandosi sulla formazione militare e sulla cultura della caccia in cui si era formato per nativa origine contadina.

Non si sa in quali condizioni sia ritornato alla sua Catutè dopo il 25 aprile, come abbia affrontato l’avventurosa discesa lungo l’Italia disastrata e oltrepassato lo Stretto, né in quali condizioni lo abbia accolto all’arrivo la famiglia. Nel periodo postbellico l’onestà del suo operato di militare lo portò senz’altro a impegnarsi ancora strenuamente per la ricostruzione, anche puntando sul risarcimento affettivo del matrimonio per un futuro di rinascita sociale non violenta, che però un triste ostacolo genetico gli negò nei carissimi figli.

Si sa invece che il fratello Antonino ritornò a Catutè dal lager in Germania, internato militare, trovando alla stazione ferroviaria di Capo d’Orlando i parenti catutioti in festa, preavvisati telegraficamente dal centro di smistamento profughi della Croce Rossa di Roma. Le vicissitudini affrontate durante gli anni di deportazione sono note e pubblicate in interviste che lui rendeva volentieri con molti particolari e precisazioni di carattere storico.

Antonino, arruolato come volontario nella Guardia di Finanza, si trovava sul fronte francese quando l’8 settembre del ’43, dopo aver negato la scelta della Repubblica Sociale, fu catturato dai tedeschi e deportato in Germania nel campo di concentramento di Zregengein-Kassel I.X.A. con l’obbligo di lavorare al seppellimento dei deceduti nelle fosse comuni. Mussolini, si sa, aveva stretto un accordo che negava i diritti ai prigionieri italiani, per questo divenuti di fatto schiavi.

Lavorò poi come uomo di fatica al trattamento delle macerie, in condizioni igieniche e alimentari insopportabili. Ai primi di aprile del ’45, durante un trasferimento di lavoro il comandante tedesco inaspettatamente abbandonò il gruppo e Antonino poté fuggire attraversando un bosco insieme a un commilitone siciliano. I fuggiaschi trovarono infine rifugio in una cascina a Nortein, ospiti di contadini polacchi deportati là a sostituire i tedeschi nella produzione agricola. Nascosti nel fienile, all’alba seguente di quell’aprile si svegliarono col rumore dei carri cingolati americani e fu la desiderata Liberazione.

La memoria di Antonino, decorato nella categoria Internati Militari Italiani, curata con orgoglio e affetto dai due figli, è stata consacrata da vari riconoscimenti militari, dal Diploma d’Onore al merito di guerra e dalla Medaglia d’onore di Reduce dalla prigionia in Germania, questa consegnata personalmente con cerimonia in Quirinale dal presidente Giorgio Napolitano. In un articolo del giornale A.N.F.I. (nov.-dic. 2011) Antonino viene descritto come “Uomo di grande coraggio e di straordinarie virtù, consapevole ed orgoglioso dell’eroico patrimonio acquisito, del quale oggi tutte le Fiamme gialle sono depositarie”.

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