di Franca Sinagra Brisca

La Sicilia si sa, è terra di campagne coltivate e di prodotti agricoli prelibati che, fino all’apertura dei supermercati e per la verità ancora oggi nei nostri paesi collinari e costieri, vengono venduti da ambulanti in piccoli mercati di paese, ma anche ai crocicchi delle strade. Anche il latte, fino a metà del 1900 e non solo nei paesi agricoli, ma anche nelle periferie di città, veniva fornito ancora caldo direttamente con mungitura a vista dalla capra, e un piccolo gregge sostava sul marciapiede davanti alla porta delle case.
L’ambulante aveva l’aspetto del tipico siciliano del folclore: in completo di velluto con coppola, l’incarnato scuro con largo sorriso candido, gli occhi neri affossati nell’orbita e ammiccanti, lo sguardo intenso sotto folte sopracciglia. Con andatura dinoccolata, l’uomo e l’asino procedevano all’unisono, al ritmo dello scalpiccio degli zoccoli, e sembravano trainare ambedue il carretto scolorito e cigolante sullo sterrato.
Lo si sarebbe definito un uomo senza consistenza di spirito, apparizione svogliata e misteriosa sullo sfondo assolato, e non è da risalire con la memoria al panorama di un film ambientato nel far west, visto che si tratta di uno scorcio della parte più rigogliosa della Sicilia settentrionale ai tempi del fascismo, di simile c’è solo la difficoltà di una vita pericolosamente povera.
Nella piccola Malò, frazione di Naso nel territorio storico dei Nebrodi, dove gli uomini erano già da ore usciti di casa al lavoro nei campi distanti sempre almeno un paio d’ore di cammino, le donne attendevano l’arrivo dell’ambulante come oggi si attende a domicilio l’arrivo della merce da Amazon. Le casalinghe o massare, lo adocchiavano arrivare in discesa già sulla curva, quale fuori dalla porta di casa, quale dietro a una finestra accostata o alla distesa di lenzuola, pronte a interrompere il lavoro domestico per rifornirsi delle merci attese.
Svoltata la prima cantonata all’entrata del paese e stagliandosi nella luce vivida del mattino, quella sagoma scura avanzava lenta, appaiata a quella dell’asino e del vecchio carretto traboccante di colori e di rigogliose verdure. Impensabile da quelle parti la ricchezza artistica dei carretti siciliani di città, come se ne vedevano a Palermo o a Catania, falso storico di imbonimento culturale, offerto oggi in miniatura ai turisti, vivacemente dipinti secondo la tradizione settecentesca, opere artigianali di grande impatto visivo nel rappresentare la canonica battaglia sceneggiata da pallidi piumati paladini franco-normanni, agitatori di lunghe spade, contro barbuti saraceni in turbante, abili sciabolatori. Questa trascrizione pittorica dell’antico poema delle Chanson de geste, romanzi popolari della formazione comportamentale, oralmente diffusi sulla bocca dei cantastorie girovaghi, non aveva mai avuto nulla a che fare con la quotidiana miseria contadina, se non l’offa di un glorioso sogno epico metafisico.
L’ambulante della contrada di Malò era uomo noto in quelle contrade, atteso periodicamente dalle casalinghe per l’acquisto di generi vari, che commerciava anche con baratto le ciocche dei capelli femminili, utili per parrucche di città, in cambio di spagnolette e nastri, trecce di seta o cotone e spille da balia e stoffe a metraggio.
La descrizione del personaggio è stata riferita da una anziana testimone vivente, che ne ricorda l’aspetto di uomo sulla cinquantina. Potrebbe essersi chiamato don Pippino o don Ciccino, nomi comunissimi che equivalgono in siciliano al diminutivo di Giuseppe e di Francesco (mentre don è, come donna, residuo d’epoca romana per contrazione dal latino di “dominus” e “domina”). La fonte ricorda quest’uomo per la sua particolare funzione di agitatore politico, per l’antifascismo dichiarato tanto ingegnosamente da aver confezionato un efficace clandestino slogan pubblicitario, come lo definiremmo oggi.
S’era attrezzato di una perfetta scenografia. La merce in vendita, posta in evidenza al centro del carretto, comprendeva un ritratto incorniciato dei due dittatori e un altro di due cani appaiati, ma al centro fra questi l’uomo aveva accomodato dei mazzi di “asparagi” selvatici appuntiti e riccioluti come traiettorie ellittiche, la cui pronuncia dialettale gli permetteva di equivocare nel significato con il verbo sparare.
Sicuramente l’uomo, che sapeva di rischiare un processo e la condanna al confino, si scagionava linguisticamente e filologicamente dal fraintendimento circa l’obiettivo della sparatoria, nonostante di glottologia non sapesse proprio nulla e attingesse alla ricca creatività della lingua dialettale siciliana.
Il suo leit motiv gridato a squarciagola possedeva un ritmo: “Mussolini, Hitler / pausa / due cani / pausa lunga / sparici!” L’effetto dirompente stava nel nome plurale dell’ortaggio, asparagi, che nel dialetto va pronunciato privo della -a: dove “spari-ci” corrisponde in italiano a “spara-gli“ equivalente al plurale “spara a loro”.
Gridando forte lanciava per primi i due soggetti nelle cornici, poi una pausa pensata ad hoc esaltava l’attesa, come se anticipasse il puntamento di un’arma da fuoco a precedere la simulazione dello scoppio, che arrivava lanciando con forza il nome della verdura col senso di “sparategli”. L’equivoco con gli asparagi era obbligatorio e salvifico, come erano obbligati a fare tutti coloro che, non sopportando più le storture del diritto e della sopraffazione, ricorrevano al sarcasmo, all’ironia e all’invettiva, celandole nel qui pro quo di un malinteso ben organizzato.
Il rischio era palese, si sapeva che un tizio era stato processato e confinato per essersi ostinato a sedere, in trattoria, dando le spalle al ritratto del duce; si sapeva di donne ammonite e carcerate perché avevano protestato per la secchezza della fontana o per simili comportamenti ritenuti ribellione o renitenza offensive, temute dai fascisti in quanto insubordinazioni dichiaranti la critica e la disobbedienza civile, le famose “mele marce” da escludere da una società millantata come ordinata e sicura… quando i treni viaggiavano in orario e le porte restavano aperte… alle perquisizioni. Altri esempi di vita spicciola, che sembrano irrilevanti, riguardano il vissuto intenso di quei tempi infelici. Tutte le sere prima di coricarsi, una casalinga praticava un rito, che definiremmo di tipo vudù, consistente nel pungere con un grosso ago da cucito il volto stampato di Mussolini posto sul comodino, che era l’esecuzione in pectore della condanna del rappresentante del fascismo. Anche un’altra madre, nonostante il vestiario fosse un bene prezioso difficilmente procurabile, bruciava nel forno del pane “per sbaglio” la divisa nera del figlio. E che godimento interiore sarà stata la vista vendicativa di schiere di bambini addobbati con berretti neri ricavati per spregio da calzini vecchi e senza pon-pon, parodia del fez.
La disubbidienza civile è strumento antichissimo, da sempre efficacemente condivisa come arma della protesta popolare in attesa della liberazione. Trovate sarcastiche come queste, teatralizzate, si direbbero frutto di inermi o ingenui comportamenti, paragonabili per efficacia di contrasto alla puntura di una zanzara sul deretano di un elefante, ma se le si moltiplica per milioni, si deduce quanto abbiano contribuito al collasso politico e al ripristino della speranza del diritto civile nella futura Liberazione.