Alla memoria di Ernesto Treccani
di Sebastiano Saglimbeni

Conoscerla bene, con proprie esperienze, quella, ad esempio, della natura di non poche campagne del profondo sud italico. Quando non pioveva, nel tempo giusto, venivano, perché non restassero inerti, innaffiate con le lacrime e con il sudore degli zappatori. Un commovente sollievo quando la natura fioriva di frumento, di vari frutti ed erbe mangerecce e per il bestiame. E’ una cognizione della natura quando si constata la deturpante anarchia vegetale, un’invasione che ha, da anni, pure complice l’esodo dell’emigrazione e della decrescita anagrafica, cancellato, con erbacce, rovi e piante spinose, persino quelle brutte strade e viottoli che battevano asini, muli, mucche, capre, pecore e uomini con l’aratro o la zappa su una spalla e con dietro le donne con in testa la pentola di terracotta con i ceci e le fave o altro cotti. La cognizione della natura campestre desolata, con la scomparsa delle aie, che mai potranno sfamare i pochi rimasti nelle comunità, vecchi e pensionati con pochissimi giovani. Si intenda la desolazione della natura nei versi seguenti che fanno parte della silloge “Estremi bagliori del tramonto”di chi questa nota redige,
Tanta anarchia di erbe marcescenti,
pure verdi mangerecce e, come tali,
ricercate, è una rivolta di terre perdute;
e nevrosi di alberi, in vita dal frutto
guardato, sin dal fiore, adornante
la radura; e di acque lustrali,
dove si alleggerivano le donne
dei grevi fasci di arida legna.
Giumella poi facevano per bere
detestando in dialetto l’esser vile.
Questo passato, in un dormiveglia,
avvolto d’ombre celeri, spedite
dal mare, che indora nei fondali,
Scilla e Cariddi, poesia non mostri.
Spesso con l’incedere degli autunni e degli inverni, la natura dell’Ionio e del Tirreno imperversa, come se si gloriasse, si riversa sulle costruzioni malandrine delle riviere, distrugge il lavoro delle aree di terre con ortaggi ed altro bene. E tanta vessazione dei lavoratori. Non meno male al nord. Ho ascoltato il lamento di gente della piana veneta. Arida la terra, il lago di Garda che perde acqua, nel letto dell’Adige crescono e svettano le acacie.
Quante volte scorgemmo, in terra dei ciclopi,
il Mongibello ribollire ad onde e vomitare globi
di fiamme e sassi liquefatti dai crateri rotti!
Versi, questi, che scriveva più di due millenni or sono e che si leggono nella sua seconda opera, Le georgiche, il poeta Virgilio Marone. Riecheggiava in vero in quel remotissimo passato la nuova con lo scempio dell’Etna, vomitante fuoco, chiamata dai siciliani Mongibello.
La natura, all’inizio del secolo scorso, si aprì e rase al suolo Messina e Reggio Calabria. Una tragedia, il 28 dicembre 1908, mai avvenuta in Europa, con quasi centocinquantamila morti nelle due città. Caddero al suolo abitazioni ed edifici imponenti. Tra le terribili macerie decina di migliaia di abitanti restarono sepolti vivi, vicino ai morti. E’ stato tante volte studiato e scritto che la natura dello Stretto, che divide la Trinacria dalla terra calabra, è generatrice di maremoti e terremoti. E pure una cognizione si contempla nella sublime leggenda di Colapesce, trattata da etnologi come Giuseppe Pitrè nella sua silloge delle fiabe e persino dal drammaturgo Schiller. Il giovane Colapesce, un subacqueo, incaricato dal re di ispezionare i fondali della meravigliosa e fragile Messina, riferisce che la città è sorretta da tre colonne, una ben forte, l’altra cariata, la terza sul punto di essere travolta dalla pesantezza della terra che sostiene. Anche dell’altro si legge in altri scritti sul mitico Colapesce
La cognizione della natura nell’ostinata azione di Heinrich Schliemann, indefesso viaggiatore, che si recò nell’aprile del 1870 in Asia Minore, sulla collina di Hissarlik per iniziare un estenuante scavo e scoprire la mitica Troia, distrutta dai Greci e cantata da Omero. Una dolce insania inoltrarsi nella conoscenza di una natura per riesumare una civiltà che aveva generato una sempre viva ed insuperabile Poesia.
Una lunga strada lo studio della natura del corpo umano, un despota sin dall’uscita del ventre materno, che ci produce tanti mali. La scienza – è risaputo – non è esatta e, conseguentemente, non sempre ci guarisce. Tanti i mali corporali. Più terribili quelli della mente di uomini del potere – sin dal passato remotissimo ad oggi -, che continuano a sterminare con la guerra che prediligono un’infinità di propri simili. La natura della mente degli uomini dall’abietto potere che poi chiudono con la vita in uno stato miserando. Nulla salus bello. Nessuna salvezza in guerra nella nostra lingua. In una pagina del suo De rerum natura, il poeta Lucrezio ricorda che il condottiero Scipione, ”fulmine di guerra, incubo di Cartagine,/ affidò le ossa alla terra come se fosse un servo ripugnante,/ similmente gli scienziati, gli artisti, non esclusi coloro/ che prediligono le Muse…. “. Tutti uguali nella natura della Morte. E dopo il riferimento alla distruzione di Messina e di Reggio Calabria, si assiste ancora alla potenza micidiale della natura che si è aperta in Turchia e in Siria. Le macerie, che non si contano, sono le ignobili costruzioni dell’uomo. La natura, coglionata, è più forte della larva verticale umana?
E, in chiusura a questa mia nota, qui una proposizione dell’intramontabile Sofocle che recita nell’Antigone: “Molte sono le cose terribili, ma niente è più terribile dell’uomo”.