Contributo alla discussione “Rivoluzione e Costituzione”
di Luca Cangemi

COPENAGHEN, 22 DICEMBRE 1938) “PORTO DI PORSGRUNN”
1899 – OLIO SU TELA, CM 37X75
Federico Martino compie un atto coraggioso, forse temerario, sicuramente necessario, proponendoci di tornare a mettere a tema il concetto di Rivoluzione.
Non c’è parola più omessa e manomessa di questa nel panorama intellettuale dominante. Essa ha subito da gran tempo un attacco concentrico sul piano filosofico, storico, politico. La criminalizzazione del termine e del suo significato storicamente determinato ha proceduto lungo la via di revisionismi storici (che hanno colpito non solo Marx, Lenin e Mao, ma persino i Giacobini) ed è stata proclamata da assise parlamentari più o meno autorevoli, come quella che, senza poteri e dignità, pretende di rappresentare i popoli dell’Unione Europea. La parola è divenuta, quindi, “indicibile”, oppure, peggio ancora, parte di espressioni (“rivoluzione colorata”, per esempio) che ne capovolgono il senso, designando esperienze assai più vicine a ciò che la tradizione designa come “controrivoluzione”.
Eppure, il nodo della Rivoluzione, come una maledizione, o come una possibile benedizione, ci torna davanti.
Sì, la Rivoluzione, o meglio l’esigenza di essa, è attuale nel suo significato classico di processo teso a realizzare una Società rispondente alle esigenze di un modo di produzione in via di affermazione (come scrive Martino) mentre appare sempre più evidente l’incapacità del modo di produzione dominante di risolvere i problemi che si pongono di fronte alla società stessa. Perché l’incapacità del modo di produzione capitalistico che domina il globo appare non solo indiscutibile, ma anche sempre più chiara.
Pur con tutta la cautela storicamente necessaria quando si usa l’espressione “crisi del capitalismo”, non si può negare che proprio di fronte a questo siamo. Una dispiegata crisi del modo di produzione vigente, che motiva e unifica la crisi economica manifestatisi nel 2008 (e mai più risolta), la crisi ambientale, sempre più dirompente, la crisi pandemica, la crisi militare del 2022. Una crisi d’intensità, durata e conseguenze inedite. Ancor più significativa, se possibile, è la crisi di egemonia che il modello capitalista attraversa. Potremmo dire che siamo in quella che lo storico marxista indiano Ranjit Guaha chiama, lavorando creativamente su Gramsci, «dominance without hegemony». Il sistema capitalista domina ma non convince. E ciò solo a poca distanza da quegli anni ’90 che erano stati annunciati come l’inizio di un mondo pacificato sotto il mercato, se non addirittura come la fine della Storia. Le manifestazioni e le conseguenze di questa crisi di egemonia, di cultura e di consenso sono tra le più varie. Nel cuore della metropoli capitalista (e della scienza piegata alle esigenze del capitale), gli Usa in primo luogo, esse si manifestano in un’ondata d’irrazionalismo, davvero impressionante, che inizia ad assumere anche influenza politica diretta. Dovunque si diffonde una sfiducia radicale nei confronti delle élite politiche e intellettuali e, con particolare virulenza, si moltiplica la critica di massa nei confronti del sistema informativo. È, quest’ultima, una considerazione di grande rilievo, se pensiamo al ruolo, quasi onnipotente, che il sistema dell’informazione, assolutamente dominato dagli USA e dall’anglosfera, riveste nell’impianto di potere globale.
Eppure, l’eco internazionale che ha avuto la sfida lanciata da Julian Assange al monopolio della verità detenuto dagli USA, o, per altri versi, gli stessi orientamenti dell’opinione pubblica sul conflitto in Ucraina (largamente dissonanti dalle linee totalitariamente imposte dai mezzi di comunicazione di massa) non sono fenomeni spiegabili se non con una percezione inedita, ma progressivamente consolidata, che il sistema informativo dominante è una “fabbrica del falso”.
Il capitalismo contemporaneo registra una disfatta evidente anche rispetto ai tratti più caratteristici della sua costruzione materiale e ideologica: la fiducia in un mercato autoregolantesi e l’azzeramento della politica.
Per dirla brevemente e rozzamente: quando lo stato deve intervenire per salvare le banche, è assai difficile sostenere credibilmente che solo il mercato deve gestire scuole e ospedali.
E allora? Se le cose stanno più o meno così, vi sono risposte possibili?
Vi sono risposte che non solo non sono risolutive, ma anzi alludono a un possibile avvitamento della crisi.
La prima è la risposta “riformista”, cioè la possibile manutenzione del sistema vigente, cercando di smorzarne i tratti più aspri, ma confermandone le dinamiche fondamentali. Il famoso mosaico di interventi post pandemia «Next generation UE» ne è forse l’esempio più organico e più ambizioso. La risposta “riformista” è, però, resa debolissima dalla sua limitatezza e anche dal discredito che hanno accumulato negli ultimi tre decenni le forze (e le stesse culture politiche) che ne dovrebbero essere protagoniste. La guerra ha di fatto messo fine, anche in linea teorica, a questa ipotesi. In particolare in Europa.
Più incisiva appare l’inquietante risposta che viene da una destra radicale (impropriamente chiamata “populista” o “sovranista”) capace, in diversi contesti e in diversi momenti, di occultare il carattere di classe dell’oppressione sociale e della sua stessa azione, proponendo altre linee di frattura (spesso usando varie forme di razzismo) ed egemonizzando parte consistente degli stessi soggetti sociali colpiti dalla crisi.
Anche la risposta di destra, però, sta incontrando difficoltà enormi, che nascono dai limiti dei propri gruppi dirigenti e, soprattutto, dall’impossibilità, nelle condizioni date, di consolidare un blocco sociale sufficientemente ampio attorno ai nuclei più retrivi delle borghesie nazionali.
Il carattere di confusione estrema nelle istituzioni occidentali (ricordiamo, solo per parlare dei paesi maggiori, che negli USA il presidente attuale e il suo predecessore sono sotto inchiesta e in Gran Bretagna, nel giro di pochi mesi, si sono succeduti tre primi ministri) ha alla radice la generale assenza di risposte politiche “alte”, efficaci ad affrontare una situazione che sembra senza via d’uscita.
In questa condizione, come dice Martino,“il rifiuto della Rivoluzione ci respinge in quella parte di Natura che non ha coscienza di sé e la rinuncia a cercare un altro Mondo ci consegna alla barbarie”.
È quindi passaggio essenziale “riabilitare” il concetto di Rivoluzione, vincere la paura strutturale e, direi, esistenziale, che hanno i rivoluzionari dell’«infinita immensità dei loro propri scopi», come dice Marx ne Il 18 brumaio.
Passaggio ineludibile, dunque, ma – certo- passaggio iniziale. Affermare l’attualità del concetto di Rivoluzione apre un discorso di straordinaria complessità sui caratteri attuali e necessari della Rivoluzione.
Come la fase declinante della globalizzazione capitalistica struttura i rapporti tra classi e nazioni, dal punto di vista di un “progetto rivoluzionario”? È possibile lavorare sulle contraddizioni tra aree diverse del mondo, che la crisi attuale ci consegna, per aprire una fase di transizione? Le innovazioni tecnologiche così pervasive a cui assistiamo e che sono annunciate (basti pensare agli sviluppi dell’intelligenza artificiale) fino a che punto premono sui confini del modo di produzione capitalistico e costruiscono, già oggi, le condizioni per un futuro modello di relazioni?
Domande (queste e molte altre) di aspra difficoltà, che necessitano di un impegno intellettuale che vinca pigrizia e rassegnazione. È a questo impegno che Federico Martino ci chiama con il suo articolo, e di questo dobbiamo ringraziarlo.
Leggi gli altri contributi al dibattito nell’apposita sezione del sito “Rivoluzione e Costituzione“