di Gaetano Silvestri

“VAISSEAUX EN FEU DANS LE PORT DE MESSINE” PARIGI, 1750
CA, INCISIONE IN RAME SU CARTA, ACQUERELLATA A MANO, CM
21,5 X 39 (PARTE INCISA). VUES D’OPTIQUE
Il crollo dell’URSS e la rapida trasformazione capitalistica della Russia avevano nutrito le speranze di quanti aspiravano ad un modello unico di produzione e di sviluppo basato sul liberismo, la proprietà privata e il mercato. I conflitti di classe ed internazionali sarebbero via via diminuiti sino a sparire. Questa e non altro era la “fine della storia”, di cui tanto si è discusso, spesso vanamente. Nel fuoco delle polemiche immediate, seguite all’immane evento della crisi mortale di un sistema che aveva, bene o male, retto per molti decenni e trasformato un Paese arretrato in una delle due massime potenze mondiali, si perse di vista (o quasi) una continuità storica, che pure era sotto gli occhi di tutti: la persistenza dell’autoritarismo politico – già ereditato dallo zarismo e perfezionato dallo stalinismo – che a quel punto appariva l’involucro migliore delle tendenze monopolistiche del nuovo capitalismo. Dopo una breve caotica parentesi (il periodo di Eltsin) le istituzioni della Federazione russa si assestarono su un regime di leaderismo presidenzialistico solo lievemente mitigato dai poteri di un parlamento (la Duma) di solito plaudente.
In Russia, e prima ancora in Cina, l’insorgere impetuoso di un capitalismo che potremmo definire selvaggio si accompagnava al consolidarsi di un potere politico autoritario ed oligarchico malamente mascherato dalla propaganda ufficiale, che in Cina si ostinava ad usurpare l’aggettivo “comunista”. Se tuttavia diamo uno sguardo allo scenario economico-politico mondiale ci accorgiamo che al persistere dell’autoritarismo di origine sovietica nella nuova Russia capitalistica si accompagnavano, nei Paesi capitalistici che avevano conosciuto i percorsi aperti dalle grandi rivoluzioni borghesi della fine del XVIII e XIX secolo, forme diverse, ma convergenti, di irrigidimento autoritario e di rinnovata aggressività imperialista, questi ultimi male occultati sotto l’etichetta della tutela dei diritti umani.
Gli esempi in proposito potrebbero moltiplicarsi. Mi limito ad accennare a due vicende, che mi sembrano paradigmatiche dell’uno e dell’altra: la tendenza “imperiale” di molti Presidenti americani e l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti (coadiuvati dalla Gran Bretagna).
Lo spettacolo agghiacciante dell’assalto al Congresso USA da parte di gruppi violenti aizzati da un Presidente uscente che non voleva uscire faceva riemergere le pulsioni autoritarie dell’epoca di Nixon, solo temporaneamente contrastate nelle loro manifestazioni macroscopiche, ma perduranti in una continua e meno appariscente erosione, nella prassi quotidiana, del principio liberale della separazione dei poteri.
L’invasione dell’Iraq – per il conclamato obiettivo di abbattere la dittatura di Saddam Hussein e con il pretesto di inesistenti armi di distruzione di massa – costituisce il risvolto esterno del suaccennato processo di irrigidimento autoritario camuffato. Anni prima il mondo aveva assistito alla guerra delle Maldive (o Falkland), nella quale il regime militare argentino era palesemente l’aggressore e il Regno Unito l’aggredito, ma si dimenticava la posizione geografica di queste isole e non ci si poneva la domanda se, per caso, il dominio britannico in quei territori non fosse un residuo del colonialismo, non certo democratico e pacifista.
Anche l’aggressione all’Ucraina da parte della Russia di Putin è stata motivata dal governo russo con l’esigenza di reprimere rigurgiti di nazismo che in effetti si erano manifestati negli ultimi tempi, ma che erano rimasti sotto traccia sin dalla fine della seconda guerra mondiale. In realtà è in atto lo scontro tra due nazionalismi, il che ovviamente non può dare alcuna giustificazione all’invasione imperialistica russa ed alle atrocità che si registrano quotidianamente, così come non fu possibile, né sarebbe stato accettabile, giustificare l’invasione tedesca della Polonia basandosi sull’autoritarismo dei militari polacchi.
Ogni vicenda storica ha le sue specificità e bisogna guardarsi da rozze generalizzazioni e semplificazioni. Non si può non notare però che oggi, come nel Novecento, autoritarismo e imperialismo camminano ora insieme ora per strade separate, ma convergenti. Globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia contribuiscono in modo potente ad accentuare questi fenomeni, mentre il fallimento di esperimenti di liberismo estremo (come nel Cile di Pinochet) non scoraggia tuttora l’attacco ai diritti sociali, che assume nomi diversi (austerità, rigore finanziario, controllo del debito pubblico etc.), ma conserva la medesima sostanza. Una novità relativamente recente è l’allontanamento dalle politiche sociali redistributive dei partiti (o di ciò che ne resta) della sinistra tradizionale ed il riempimento del vuoto da questi lasciato ad opera di movimenti politici di destra, che diventano populisti, come peraltro i fascismi storici.
Occorre partire dall’incompletezza delle rivoluzioni borghesi del XVIII e del XIX secolo per comprendere le ragioni profonde della catastrofe della democrazia che si verificò in quasi tutta Europa nella prima metà del XX. Già prima della Rivoluzione francese del 1789, la Rivoluzione americana proclamò il principio di uguaglianza senza abolire lo schiavismo, lasciando irrisolta una contraddizione reale (per dirla in linguaggio marxista) destinata ad esplodere successivamente in una sanguinosa guerra civile tra Nord industriale e Sud agricolo. La stessa Rivoluzione francese, dall’avvento prima del Direttorio e poi di Bonaparte portò al consolidamento di un dominio di classe vestito dei panni dell’astrazione giuridica del codice napoleonico, che si avvalse tuttavia, per gran parte del secolo, dell’autoritarismo politico. Gli Stati nazionali in Italia e in Germania si formarono sulla base di una pseudo-democrazia censitaria che covava dentro di sé la contraddizione di una lotta di classe divenuta accesa, e perciò più visibile, dopo la prima guerra mondiale, in Italia con le lotte operaie del “biennio rosso” e dell’occupazione delle fabbriche e in Germania con gli scontri sociali del periodo weimariano. Nel XX secolo, la Repubblica spagnola venne annientata dalla destra clerico-militare di Franco appoggiata, anche con le armi, dalle dittature fasciste italiana e tedesca. Queste ultime si erano affermate nei rispettivi Paesi come reazione violenta, ideologicamente sorretta da miti nazionalisti, di una borghesia impaurita dalle rivendicazioni popolari.
Le cause delle vicende storiche cui ho fuggevolmente accennato sono molteplici e complesse. Mi sembra utile prendere in considerazione una di esse, perché proietta, a mio avviso, i suoi effetti ancora oggi: la scissione tra democrazia politica e democrazia sociale. Sino alla fine della seconda guerra mondiale, l’opposizione tra l’una e l’altra forma di democrazia aveva dato luogo a scontri e massacri, giacché le classi borghesi ritenevano che la democrazia politica, peraltro elitaria, fosse il punto di arrivo del processo rivoluzionario iniziato alla fine del Settecento, mentre le classi proletarie oppresse svalorizzavano – anche per l’influsso di una ricezione dogmatica del marxismo – gli istituti del liberalismo istituzionale, ritenendoli, puramente e semplicemente, schermi ideologici del dominio di classe. Lenin irrise alle assemblee rappresentative, definendole “mulini di parole”, mentre veniva rispolverata l’ironica definizione che Donoso Cortés, successivamente seguito da Carl Schmitt, dava alla borghesia “democratica”: clasa discutidora. I fautori della democrazia politica di stampo liberale erano sbeffeggiati, da sinistra come da destra, come chiacchieroni inconcludenti, difensori di libertà illusorie, mentre, all’opposto, i propugnatori della democrazia sociale erano bollati come “sovversivi”.
Ci volle quello che Adorno chiamò “orrore assoluto”, Auschwitz, per comprendere che bisognava fare qualcosa per superare una dicotomia che affondava le sue radici nella divisione in classi della società e metteva continuamente in crisi le istituzioni liberali. Già Roosevelt negli USA, con il New Deal, aveva tentato una risposta al dilemma, purtroppo limitata nel tempo e, nel caso delle famose “quattro libertà” (di parola, di religione, dalla paura e dal bisogno) rimasta inattuata. Dopo il crollo delle dittature nazi-fasciste videro la luce, prima in Italia e poi in Germania, Carte costituzionali di tipo nuovo, che per la prima volta nella storia – se si eccettua il debole esperimento di Weimar – tentavano di coniugare, specie quella italiana, democrazia politica e sociale, andando, a mio parere, oltre il “compromesso” – di cui si parla spesso con intenti svalutativi – per attingere ad un risultato di vera e propria “fusione” tra diritti civili, politici e sociali e quindi tra democrazia politica e sociale.
Si trattava di una rivoluzione radicale. Si comprendono bene quindi i tentativi, a lungo riusciti, di congelare il dettato costituzionale più innovativo. Per quanto riguarda l’Italia, il “disgelo” costituzionale – con l’attuazione concreta della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della magistratura e delle Regioni – non graziosa concessione, ma frutto di decennali lotte di massa, fu prodromico ad una stagione di riforme (assistenza sanitaria, statuto dei lavoratori, nazionalizzazione dell’industria elettrica etc.) destinata, assieme ad altre che avrebbero dovuto arrivare, a porre le premesse della fusione di cui sopra.
Prendendo spunto dalla tragedia del Cile – che aveva drammaticamente riproposto i termini dell’antica scissione – le menti più aperte negli opposti schieramenti politici ricominciarono a riflettere su un tema lasciato in disparte per lungo tempo: l’obiettiva comunanza di interessi tra persone appartenenti alle stesse classi sociali, ma aderenti a ideologie e partiti politici differenti. Appariva necessario rinnovare il patto della Costituente, nel segno di una progressiva attuazione della Costituzione, a cominciare dalla sue disposizioni di principio Si trattava di orientamenti di grandi masse di donne e uomini, che solo per comodità espositiva possiamo riassumere nei nomi di Enrico Berlinguer e Aldo Moro. La strada che veniva tracciata, per quanto pacifica, era tuttavia insopportabile per gli interessi delle classi dominanti e pertanto uno dei due interlocutori principali, il “traditore” Moro, veniva spietatamente eliminato, al culmine di una cupa stagione di violenze anarcoidi, stragi fasciste e ambiguo terrorismo. L’esperimento italiano, con tutti i suoi limiti, dava fastidio ad entrambe le superpotenze che allora si spartivano il mondo, ai capitalisti americani come ai burocrati sovietici. Kennedy era stato assassinato, Krusciov era stato defenestrato dal potere, Giovanni XXIII era provvidenzialmente morto per cause naturali; non c’era alcuna voglia di altre figure scomode.
La scoperta del cadavere del leader DC nel bagagliaio di una macchina segnò l’inizio di una normalizzazione all’insegna di un becero edonismo individualistico e della disgregazione politica e sociale. Oggi ci troviamo immersi in una società ridotta in frantumi, dove la cultura dominante ha buttato in mare le idee assieme alle ideologie. I partiti politici, così come sono profilati dall’art. 49 della Costituzione, sono defunti e seppelliti. Al loro posto occupano la scena piccoli personaggi di transitoria notorietà, che si azzuffano tra di loro per accaparrarsi un effimero consenso derivante da promesse di elargizioni dall’alto di stampo neo-borbonico. Si progettano riforme costituzionali tutt’altro che rivoluzionarie, basate sull’antico mito del “capo”, che tanto ha affascinato le masse nella prima metà del Novecento. Lo spirito antiparlamentare risorge ovunque, non solo in Italia, giacché l’esistenza di rappresentanti del popolo con il potere di legiferare rimane un rischio potenziale per chi vuole a tutti costi perpetuare la scissione tra democrazia politica e democrazia sociale. Lo aveva già capito il vecchio Engels, ragionando sugli effetti di una possibile introduzione del suffragio universale.
La democrazia pluralistica, fondata sulla rappresentanza politica e la separazione dei poteri, viene continuamente sommersa dalla “folla solitaria”, in cui l’individuo isolato si esalta nella massa e aspira ad acclamare un capo. Questa è la vera base del fascismo. Sorprende che anche pretesi intellettuali neghino tale realtà, ripetendo che non si vedono (tranne casi folkloristici) camice nere, stivaloni e gagliardetti. Quasi superfluo dire che quand’anche li vedessero sarebbe comunque troppo tardi.
Nell’epoca presente la lotta per la Costituzione non è conservatrice, ma, al contrario, autenticamente rivoluzionaria, giacché la sua corretta attuazione non avrebbe soltanto effetti di trasformazione dell’assetto economico-sociale esistente, ma forse, potrebbe salvaguardare i rivolgimenti sociali da un male ricorrente nella storia degli ultimi secoli: la conversione della valenza liberatrice della rivoluzione in forza oppressiva della dittatura. Si tratta di un processo degenerativo indotto all’inizio dalla necessità di fronteggiare reazioni violente dei difensori del vecchio assetto e quindi, paradossalmente, dalla tenace volontà di preservare in permanenza l’effetto liberatorio ed accelerare nonché consolidare la costruzione di un nuovo sistema. Sia in Francia che in Russia si ritenne possibile, e addirittura necessario, porre la dittatura al servizio della libertà, con i risultati disastrosi che conosciamo: la libertà disparve o non sorse mai, la dittatura rimase. Proprio la scissione tra libertà formali “borghesi” e liberazione dallo sfruttamento capitalistico indusse erroneamente ad interpretare la marxiana “dittatura del proletariato” come dittatura ad un tempo politica e di classe, avviandosi, come in effetti è avvenuto, sulla strada della dittatura di un partito o di una persona circondata da una stretta oligarchia.
Il sistema di pesi e contrappesi del costituzionalismo “borghese” moderno potrebbe evitare la contraddizione del volontarismo rivoluzionario (da Robespierre a Lenin e poi a Stalin) che ha tentato di porre in atto l’auspicio di Rousseau di “costringere i cittadini ad essere liberi”. Il fascino di questa contraddizione ha già provocato troppi danni per farsene ancora irretire.
Se ci pensiamo bene, il costituzionalismo è anch’esso un’utopia, che esercita una forza trainante e fortemente innovativa quando le contraddizioni reali, cioè gli scontri di interessi, creano le condizioni per salti qualitativi nella direzione di una crescente saldatura tra democrazia politica e democrazia sociale. L’equilibrio costituzionale non è, per sua natura, conservatore. Al contrario, esso può essere una garanzia contro forzature volontaristiche che sfociano in opprimenti regimi autoritari, che sono, a dispetto di ogni artificio dialettico, il contrario di qualunque forma di libertà.