di Sebastiano Saglimbeni

Francesca mi salutò ancora una volta,
seduta vicino al letto, e mi diede una
cartolina, un ritratto del figlio, ragazzo
di sedici anni, vestito con gli abiti della
festa, una grande cravatta americana,
e un viso rotondo di bambino, coi neri
occhi pieni di decisione.. .(C. Levi)
1955-2022. È trascorso più di mezzo secolo da quando certi blasonati ed intoccabili signori delle terre siciliane decisero di fare assassinare con un fucile a canne mozze e di sfregiare, perché non fosse riconosciuto, il giovane sindacalista Salvatore Carnevale, visto, persino da uno stesso rappresentante della legge, un maresciallo dei carabinieri, come “il veleno dei lavoratori”. Un delitto, la morte del sindacalista Carnevale, come tanti, rimasto impunito, perché, come tante volte, prevalse la legge del più forte. Quel risveglio della società poco abbiente e vilipesa, che per anni sostentava vivendo a servizio dei latifondisti, ma che andava formandosi, in qualche modo, acculturandosi e reclamando i propri diritti, fu visto come una sorta di segnale resistenziale osteggiante quei secolari privilegi. Non si contano, a proposito, le tante pagine di scritture. Che non vanno scordate, quelle, soprattutto, di Danilo Dolci, Carlo Levi, Michele Pantaleone, Francesco Renda, Liborio Guccione e Giuseppe Carlo Marino, ma pure non vanno scordate quelle dei poeti, in lingua e in dialetto, Antonino Cremona, Ignazio Russo e Ignazio Buttitta. Questi due ultimi, Russo e Buttitta, scrissero in dialetto. Russo scrisse di Accursio Miraglia, uno dei sindacalisti fatti trucidare dalla mafia, e fece circolare, in ciclostile, fra contadini, operai ed intellettuali siciliani, il suo testo dal titolo Miraglia e li braccianti. Buttitta, più fortunato, poté pubblicare il suo La morti di Turiddu Carnevali.
Il grande Michele Pantaleone, da anni scomparso, rimane colui che ha saputo studiare profondamente il fenomeno dilagante e tragico della mafia informando e formando il mondo con la pubblicazione nel 1962 presso l’editore Einaudi Mafia e politica introdotta da Carlo Levi. In questa opera, per cui subì persecuzioni legali come diffamatore, un alto e coraggiosissimo saggio politico, si legge, fra l’altro, di quella coscienza politica e civile contadina fattasi lotta consistente in quell’assalto nel 1946 al latifondo. “Per più giorni” scrive Pantaleone “sventolarono l’una accanto all’altra la bandiera rossa con falce e martello e la bandiera bianca con il giglio e lo scudo sabaudo; a Riesi gli 800 minatori della miniera di zolfo Valsalso si recarono assieme ai contadini delle cooperative Il Lavoratore (socialcomunista) e Combattenti e reduci (dc) ad occupare i feudi Turcotto, Gurgazzi e Brigateci di proprietà della principessa di Trabia, proprietaria della suddetta miniera”.
Questa grande lotta un anno dopo che venne assassinato Carnevale, un anno prima della strage di Portella delle Ginestre. Lo stesso anno dell’assassinio di Carnevale,
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Carlo Levi pubblicò presso Einaudi Le parole sono pietre. Un’opera (reportage – letterario) suddivisa in più scritti, che vanno, nella prima e nella seconda parte, dal 1951 al 1952, mentre, nella terza, dal luglio all’agosto del 1955. L’opera, diventata celebre, segue alla scrittura, di altro tipo, meditata per anni, Cristo si è fermato a Eboli. Ne Le parole sono pietre c’è la Sicilia visitata in tre giornate da Levi, che la descrive e la dipinge, vista nel simbolo di una condizione della coscienza umana. E quindi le campagne che vengono descritte allo scrittore dagli informatori con il ricordo del bandito Giuliano e con quel mondo delle caste feudali e con quella gente ammalata, demente, tisica, un po’ prima narrata in Conversazione in Sicilia da Elio Vittorini. Ne Le parole sono pietre pure i luoghi dove Danilo Dolci si prodigò strenuamente con la sua opera soccorritrice. Infine, c’è Sciara, la comunità di Salvatore Carnevale, dove visse la madre, una donna contadina, formosa e coraggiosa, abbandonata e poi vedova, Francesca Serio che aveva denunciato a Palermo la mafia. Il suo racconto, tutto incentrato sulla tragica fine del figlio e sull’attesa di una giustizia, è un racconto stupendo, che tale rende quello dello scrittore Levi. Si intenda in questo breve tratto di citazione: “Parla, racconta, ragiona, discute, accusa, rapidissima e precisa, alternando il dialetto e l’italiano, la narrazione distesa e la logica dell’interpretazione, ed è tutta, chiusa in quel corso violento e ordinato di parole. Niente altro esiste di lei e per lei, se non questo processo che essa istruisce e svolge da sola, seduta sulla sua sedia di fianco al letto: il processo del feudo della mafia e dello Stato. Essa stessa si identifica totalmente con il suo processo e ha le sue qualità: scruta, attenta, diffidente, astuta, abile, imperiosa, implacabile. Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono lacrimema parole, e le parolesono pietre”. Ma si coglie, verso la chiusa della narrazione, laddove l’autore riporta il parlato di Francesca, qualcosa che non è solo espressione di dolore, ma espressione di una purezza lirica poetica. Come: “Facevo il pane quando mio figlio moriva”. Le scritture che abbiamo citato come esempio, assieme alle tante cronache del tempo divulgate da quotidiani, come “l’Unità” e “Avanti!”, suscitarono l’interesse di due fratelli, i Taviani, che iniziarono la loro carriera di cineasti con un film ispirato all’immagine e all’opera del sindacalista Carnevale. Nel film, dal titolo Un uomo da bruciare, uno dei più grandi attori, Gian Maria Volonté, prestò la maschera al sindacalista Carnevale, con certa verosimiglianza nel fisico, nella parlata e nei gesti. Anni fa, per la circostanza dei cinquant’anni di questo assassinio, c’è stato chi ha ricordato il sindacalista e il processo che si svolse in un clima politico aspro con due famosi legali (futuri Presidenti della Repubblica): da un lato duellanti, l’avvocato Sandro Pertini, dirigente socialista, dalla parte di Francesca Serio Carnevale, dall’altro lato, il democristiano Giovanni Leone, dalla parte degli accusati, che vennero assolti.
Resta da scrivere che rimane limpida lezione di grande impegno civile l’opera, dall’epilogo tragico, del sindacalista Carnevale, come pure quella degli altri sindacalisti, oltre una trentina, bruciati, dal 1944 al 1945, dal fuoco di Cosa Nostra, in quella Sicilia del dopoguerra, dove, ora, a distanza di mezzo secolo e oltre, con nuove e più devastanti tecniche, si ricompone, in parte sbaragliata, la mafia.
Il sindacalista trucidato è stato ricordato anni fa con un singolare spettacolo teatrale presentato in ante prima a Parma, da Mana Chuma Teatro. Regia di Maria Maglietta con Salvatore Arena interprete di Carnevale, in un monologo, che si è saputo trasformare in più maschere, ora al maschile, ora al femminile.
Lo ricordino (ancora ce ne sono) le coscienze odierne di anziani e di giovani, che vivono in quella comunità di Sciara, parlandone, in nome della sua memoria. E a queste si aggiungano le stesse coscienze di insegnanti e ne parlino nelle scuole in nome di Salvatore Carnevale e riscoprano quelle alte pagine de Le parole sono pietre e quelle cronache del tempo, riguardanti quelle morti di quei sindacalisti bruciati, perché difensori di diritti umani negati. Infine, denuncino il potere di vario genere, il secolare privilegio, che è mafia, e che imperversa indisturbato un po’ ovunque, ed offende, distrugge i puri e i deboli.