di Alessandro Grussu
Le cariche indiscriminate sui manifestanti, gli orrori della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, la serie di eventi di cui è rimasto vittima Carlo Giuliani, le connivenze più volte segnalate tra “tute nere”, forze dell’ordine e servizi segreti stranieri, mettono in luce, per prima cosa, un problema storico del nostro paese nella gestione dell’ordine pubblico e soprattutto degli apparati preposti alla sua tutela. Dalle responsabilità mai chiarite del tutto per le morti di Giuseppe Pinelli e Giorgiana Masi, ai casi Aldrovandi e Cucchi, fino alle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere – che presentano, peraltro, alcune agghiaccianti analogie con quelle perpetrate a Bolzaneto – emerge un quadro che non si può liquidare con la solita metafora delle “mele marce”. Esiste un deficit di formazione democratica all’interno di alcuni settori delle forze dell’ordine, nei quali continuano a serpeggiare tentazioni autoritarie, quando non apertamente fasciste.

E questo a decenni dagli altri fatti di Genova, ai tempi della “celere” di Scelba e Tambroni, quando le redini erano ancora in mano alla vecchia guardia di matrice fascista, rimasta al proprio posto dopo l’amnistia generale di Togliatti del 1946 e i provvedimenti successivi. Così come al proprio posto è rimasta la catena di comando responsabile dei fatti del G8 di Genova. Abbiamo dovuto aspettare sedici anni, l’ottobre del 2017, perché la Corte europea dei diritti umani stabilisse che a Bolzaneto furono commessi atti di tortura. Val la pena di ricordare che solamente quell’anno nel nostro paese fu introdotto il reato di tortura, a favore della cui abolizione si sono costantemente espressi la Lega e Fratelli d’Italia, cioè i principali partiti della destra italiana.
Vero è che si tratta di una questione comune ad altri paesi occidentali: il caso di George Floyd e la protesta dei poliziotti contro il divieto di “stretta al collo” emanato dal ministro degli interni francese Castaner lo dimostrano. In questo Genova nel 2001 è stata a suo modo profetica: le classi dirigenti “democratiche” e “liberali”, in piena crisi di legittimazione, ricorrono a metodi che in ogni modo possono essere definiti, tranne che democratici e liberali, per soffocare ogni possibile minaccia alla propria egemonia.
Perciò, allargando la prospettiva dalla situazione italiana a quella globale, è tutt’altro che scomparsa l’esigenza di contrastare un sistema politico-economico che sta conducendo sempre più rapidamente l’intero pianeta verso il disastro ambientale. Quello che si prospetta ai nostri occhi dall’inizio del terzo millennio è un mondo in cui non solo le diseguaglianze sociali sono aumentate a dismisura, pure nel “ricco” Occidente, ma anche caratterizzato dall’indiscriminata corsa verso la “crescita” e la “produttività” su scala planetaria, che stravolge il clima a livello globale, causando eventi sempre più catastrofici. L’allusione non è solo alle recenti notizie delle terribili inondazioni nell’Europa centrale, ma anche alla progressiva desertificazione dell’Africa subsahariana, che spinge migliaia di persone a tentare di attraversare il Mediterraneo in cerca di salvezza, trovando invece, troppo spesso, la morte, o per mano delle milizie libiche finanziate anche dal governo italiano, o per annegamento.
L’opposizione al sistema capitalistico globale e la conseguente ricerca di reali alternative ad esso non possono, quindi, non saldarsi all’opposizione alle fallimentari politiche sul clima e sull’inquinamento messe in atto in questi anni dai governi dei vari G8 e derivati. Bisogna essere o ingenui o in malafede per dare credito alle promesse di chi insiste a mantenere in piedi l’illusione che si possa contrastare il cambiamento climatico senza mettere in discussione alla radice il sistema stesso che lo sta producendo. Un’illusione che continua a nutrirsi di parole d’ordine vuote e stantie come “sviluppo sostenibile” o che ne crea di nuove, ancor più dannose se possibile, come “capitalismo verde”. Anche in questo i fatti di Genova hanno smascherato la natura autoreferenziale, non democratica, ipocritamente paternalistica di quello stanco rito che sono le riunioni dei potenti della Terra.
Se da un lato l’onda lunga del movimento nato a Seattle e a Porto Alegre si è infranta a Genova contro lo scoglio della repressione, dall’altro non sono affatto venuti meno i motivi che ne stavano alla base. Quel movimento era frutto di un momento storico in cui si diffondeva ad ogni piè sospinto la vulgata liberista più becera, quella della “fine della storia” e del “non c’è alternativa”. Non solo da parte, com’era prevedibile, di chi quel sistema lo aveva sempre sostenuto e difeso, ma anche di chi voleva “umanizzarlo”, cercando di “governare” la globalizzazione. Finendo, di fatto, per appoggiarlo in tutto e per tutto, magari abboccando alla menzognera teoria dello “sgocciolamento”, secondo cui aumentando il benessere dei ceti più abbienti si sarebbe aumentato anche quello dei poveri. Una cosa che fa a talmente a pugni con la ragione, prima ancora che con la storia e con l’economia, da far ammettere persino a Joe Biden, in un discorso alle Camere riunite lo scorso 28 aprile, che “lo sgocciolamento non ha mai funzionato”.
Le crisi finanziarie della fine del primo decennio del Duemila, che da noi portarono alla stagione della “austerità” e del “ce lo chiede l’Europa”, hanno riacceso la fiamma della protesta dopo anni di frustrazione. Contemporaneamente si è allargata sempre più la consapevolezza che il nostro pianeta stia affrontando la più grave emergenza ambientale da quando l’uomo ha cominciato a scheggiare le pietre. Ebbene, l’eredità del movimento che a Genova ha vissuto il suo momento più drammatico è anche questa. Un altro mondo non solo è possibile: è “assolutamente necessario”, come ha affermato recentemente Vittorio Agnoletto. Prima che quello esistente ci crolli addosso. E questo altro mondo, ammesso che riusciremo a raggiungerlo, non lo otterremo certo per gentile concessione dei capi di stato arroccati nelle loro zone rosse.