Salvi per caso ritornarono alle contrade di Sicilia dal grande gelo di Russia

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dalla pianura sarmatica fertilizzata dal concime umano italo-tedesco

di Franca Sinagra Brisca

Antonio Cannata [Polistena (Reggio Calabria), 3 febbraio 1895 – Roma, 2 ottobre 1965]
“Paesaggio Agreste” – Olio su compensato, CM 60 x 50

Tracce della storia italiana recente della seconda guerra mondiale sono presenti anche nella contrada Catutè di Capo d’Orlando (Messina), di cui è già noto il racconto del partigiano combattente in Val d’Agno e dell’Italiano Militare Internato. Ma le vicende di quella storia di guerra sono state vissute/patite anche da soldati semplici non decorati, massa contadina mandata alla guerra di cui va senz’altro raccontata l’esperienza subita, come è toccato ad altri catutioti e a compaesani arruolati e sopravvissuti alla tremenda Campagna di Russia fra il 1941 e il 1943. I parenti attuali di quest’ultimi, sono soprattutto donne le depositarie/fonti orali di memorie e testimonianze, restituiscono ancora notizie dei nonni, com’è avvenuto in seguito a un breve sondaggio, per i soldati Antonino La Galia, Basilio Manganaro, Michelangelo Olivo, Vincenzo Sinagra Brisca, Antonino Torre.

Senz’altro in quella guerra sia gli orlandini morti che quelli sopravvissuti sono stati molti di più, visto che quell’esercito perduto di italiani chiamato ARMIR constava di circa 235.000 uomini, consegnati a cuor leggero da Mussolini dal 1941 al 1943 nelle mani del comando tedesco per l’Operazione Barbarossa/Campagna di Russia. Nel freddo gennaio 1943 trascorsero mal equipaggiati due settimane di marcia nella neve alta e gelata, per uscire dalla sacca/accerchiamento sul fiume Don, di conseguenza i dispersi furono 84.000 e i prigionieri 54.000. Anche dalla parte dei russi non si mangiava più nulla, si sa che pure gli scarafaggi erano finiti. Nella letteratura italiana il veneto Mario Rigoni Stern ha raccontato magistralmente quella ritirata nel libro-diario “Il sergente nella neve”. Non si tratta dunque di acqua passata da coprire oggi nell’indifferenza, ma è ancora possibile  ricavare dalla storia familiare o di vicinato quella consapevolezza che ci farà capire un po’ meglio il presente e magari ci salvi in futuro da proposte militari simili a quelle.

Antonino La Galia, da Fiumara di Naso, già intervistato esaurientemente da Giuseppe Perdichizzi su fb, oggi è ricordato dalla figlia anziana e dalla nipote.

Caporal maggiore, attraversò l’Europa rifiutando sempre di aderire alla Repubblica di Salò. Catturato in Jugoslavia a Spalato il 27 settembre del ‘43, la sua storia è un’odissea di marce forzate in Austria, Germania, Polonia, Olanda, ma anche viaggiando da Lienz in treno su vagoni scoperti fino a Berlino; poi in Ucraina, fino al lager in Polonia. Basilio ricorda che poco prima dell’arrivo dei russi liberatori, arrivarono due generali, un italiano e un tedesco a chiedere chi voleva rimanere con loro. Di 300 se ne arruolarono 240 e lui rimase con gli altri 59 immaginando di essere condannato a morire. Conosce vari vocaboli tedeschi e ricorda che i liberatori americani in Olanda lo fecero mangiare lentamente raccomandandogli di mangiare poco alla volta per non ammalarsi. Iniziò il rientro a casa il 19 agosto del ‘945 con una gamba malridotta.

Vicino alla casa della signora Cettina, nipote di La Galia, a Catuté, c’è ancora oggi la casa di Basilio Manganaro, anch’egli reduce dal fronte russo, un anziano uomo mingherlino ma nerboruto, che si spostava in bicicletta (evviva le bici del dopoguerra!) raggiungendo in salita perfino Floresta. Era rabdomante, cercatore di falda acquifera con bastoncini e offriva la sua consulenza senza farne commercio, perché l’attività rientrava nei poteri naturali magici. Dalla figlia Dora si sa che il padre, in Russia s’era congelato i piedi, che spesso gli rimanevano “morti” tanto che lo Stato gli dava una pensione di 200 mila lire ogni sei mesi. Basilio diceva che del suo battaglione di 1800 soldati ne rimasero vivi undici, che era stato accolto/forse nascosto? in una famiglia russa povera ma affettuosa, che ce l’aveva con i tedeschi senza cuore perché avevano ammazzato tanta gente ebrea e anche bambini. Ritornato in Sicilia, fece la “fuitina” con la moglie catutiota conosciuta mentre veniva a trovare la nonna materna a Certari; lavorò per molto tempo come pescatore a San Gregorio (amico di Senzio Colica), e poi fu raccoglitore di agrumi nella Piana orlandina.

Michelangelo Olivo, in un racconto riferito da terza persona, fu soldato in Russia e raccontò alla figlia Francesca l’episodio memorabile della sua salvezza così riprodotto.  Durante la scompigliata ritirata dell’esercito italo-tedesco, in un gennaio nevoso e ghiacciato in cui alcuni camion tedeschi raccoglievano in fretta e a caso il grosso della truppa, i soldati italiani si aggrappavano con un balzo alle sponde impegnati con le ormai poche forze a raggiungere un posto all’interno, sperando in una mano che li aiutasse a sollevarsi. I camion trascinavano soldati appesi che a un certo punto si lasciavano cadere per sfinimento che venivano travolti dai camion seguenti, contribuendo ad asfaltare/insanguinare il percorso di quell’umanità macellata: addio vita di cui restava forse la piastrina di riconoscimento. Basilio fu tra quelli che fu agguantato per la collottola da una mano misericordiosa e tirato su, così si salvò miracolato insieme a quanti semi-assiderati in quel disastro cercarono di sottrarsi alla morte.

Vincenzo Sinagra Brisca, disperso / sbandato durante la ritirata dal Don fu salvo per puro caso dal freddo russo, perché sgattaiolando si unì a un gruppo di tedeschi che lo accolsero su un camion, poi sfamato e trasferito avventurosamente (raccontava di una folla di miseri all’assalto del treno) su vagone merci; in varie tappe ed espedienti di furbizie arrivò a Merano, grande centro di raccolta militare italo-tedesco, dove venne curato in ospedale. Da Merano, con mezzi di fortuna perché appiedato, discese l’Italia percorrendo in due anni le strade d’altura dell’Appennino, svestito della divisa, fermandosi nelle fattorie a dare una mano nel lavoro agricolo che era proprio il suo e rifiutando l’occasione di un matrimonio conveniente pur di ritornare alla sua Catuté.

Arrivato a casa, lavorò come potatore nell’azienda agricola di Villa Piccolo, appiedato e con una paga tanto misera che nel 1948 partì per l’Australia insieme alla moglie orlandina Marietta; là fu presto raggiunto dal fratello diciassettenne nella orlandina Perth, dove il duro lavoro li premiò.

Si sa che un’altra signora orlandina ha raccontato che il padre, Antonino Torre, appena laureato in legge a Catania fu arruolato nell’ARMIR per andare a conquistare la Russia, ma si salvò perché il padre riscrisse con urgenza il figlio a una seconda facoltà universitaria rendendolo studente non arruolabile, e fu un valido motivo per farlo richiamare salvo a casa.

A quanto risulta anche da questi pochi resoconti i soldati andarono in guerra non pensando esattamente alla patria da salvare o alla vittoria da raggiungere; s’erano accorti presto che il motto fascista “credere, obbedire, combattere” aveva fatto di loro di nuovo carne da macello come nella prima guerra mondiale, anzi dovettero usare la loro capacità inventiva per cavarsela quanto possibile indenni. Se conosci la guerra da chi l’ha vissuta, senz’altro la rifiuti e fu per questo che i costituenti nel 1948 scrissero all’Art. 11 della Costituzione “L’Italia ripudia la guerra…”.

Dal film di Vittorio De Sica I girasoli (la cui visione è utile quanto la lettura di un capitolo di storia italiana), protagonisti Marcello Mastroianni e Sophia Loren, citiamo la scena di una distesa cimiteriale, ripresa con insistente campo lungo, dove uno studioso/attore spiega tristemente che si può dire che ogni girasole è stato concimato da un soldato in ritirata dal Don. Questa stessa panoramica delle tombe dei morti estratti dalla pianura sarmatica dal dopoguerra fino ad oggi, presenta d’estate estensioni pianeggianti coperte di spighe di grano o di girasoli in fiore e forse si presenteranno prossimamente così i campi di grano ucraini, divenuti nella globalizzazione anche strumento/ricatto di carestia internazionale.

*** A parte il monumento in piazza ai caduti elencati per nome, della più recente storia novecentesca a Capo d’Orlando si ricerca e si scrive poco, sebbene la cittadinanza abbia attraversato e vissuto situazioni severe come il fascismo, la prima e la seconda guerra mondiale, l’emigrazione transoceanica, europea e interna nel nord italiano, gli anni della Cassa del Mezzogiorno e quelli dell’anti-racket/mafia. Ancora oggi qualche documentario assembla vecchie riprese in super8 e immagini quotidiane di un piccolo mondo paesano familiare in cui sembra dolce riconoscersi e cullarsi, per sdrammatizzare ma sostanzialmente per destoricizzare/nascondere il senso dis/umano degli eventi.

Alla ricerca della certezza delle origini storiche, come si trattasse dei genitori biologici, tutte le popolazioni e i governi hanno creato origini leggendarie che spesso sono fatte risalire a divinità (reami e dittature spacciati per volontà divina), da ultimo il governo fascista si adoperò per offuscare le proprie radici elettorali / illegali e collegarle a un grande destino imperiale, simboleggiato dalla lupa di Roma (proprio affari da lupi erano i brogli elettorali, le coercizioni con olio di ricino e bastonate, l’obbligo alla tessera del pane, le violenze squadriste, l’assassinio di tre deputati dell’opposizione), mentre i nazisti scrivevano sul cinturone “Dio è con noi / Got mit uns” accaparrandosi il migliore endorsement…

Il desiderio di nobili natali individuali si rivolge di solito alla ricerca araldica, che riesce per lo più a far convergere i cognomi comuni con quelli nobiliari. Alcuni inveterati oppositori del regime monarchico dicono che… in fondo siamo tutti figli illegittimi di nobili e di preti, perciò non vale la pena perdere tempo in ricerche che trasferiscano il valore o la specificità personale in qualche elevata familiarità immaginaria che già li aveva rinnegati / respinti.

L’importante storica pubblicazione “Capo d’Orlando nel cuore” che documenta la procedura di autonomia (1925) del comune costiero da Naso, ha restituito ai cittadini la concreta realistica storia di un momento delle proprie recenti origini amministrative, fotografando lo strappo / separazione dalla storia del collinare comune-madre. E’ il punto fermo, documentato e ufficiale, mentre ancora vige la leggenda di un improbabile fondatore, soldato greco effigiato in un’unica antica moneta stampigliata. Vi si cerca una storicità militare, patriarcale, magari di nobili e gloriosi natali? E’ d’uso collocare l’insediamento orlandino nel sito dell’antica città Agatir-no/-so, di cui sono state finora incerte le tracce archeologiche, pur di separarsi, orfani, dalla corposa storia del territorio originario di Naso “Terra grande, ricca e antica” e recuperare qualche misura nel confronto sulla statura storica. Si direbbe che della storia locale novecentesca del nuovo Comune non sia stato scritto abbastanza.

Per quasi tutti i popoli la necessità di un’origine a forte caratura militare o divina/magica serve a coltivare l’identità patriottica, segnata da precisi confini oltrepassabili solo a condizioni concordate e utile a giustificare la guerra solitamente con i confinanti, oppure partecipando a una comitiva/alleanza fra belligeranti in loco o internazionale.

Oggi la Sicilia del Mito, su cui è incardinata l’operazione turistica, si ripropone con l’invito (Sicaelides Musae/Oh muse sicule!) del poeta latino Virgilio, che nelle Bucoliche evoca un’ambientazione come terra di Pace, non segnata da confini difesi col sacrificio del sangue combattente, di una pace riflessa anche nel mondo animale con metafore dove i cervi non temono più le trappole delle reti, né gli armenti l’aggressione dei grandi leoni.

*** Molto consultata in questo periodo di venti di guerra russo-ucraina è la rivista di geopolitica Limes, dal cui n. 6-2022 citiamo alcune considerazioni che illuminano sulla complessità del racconto o dell’analisi storica e su quanto sia articolata la ricerca della veridicità nella storia.

A proposito delle precedenti guerre portate contro la Russia, si legge che “L’aria del Cremlino produce negli inquilini un senso dilatato dello spaziotempo, come sperimentarono Napoleone e Hitler” (pag. 16). Dobbiamo quindi pensare che la guerra di oggi durerà parecchi anni, qualificata ad alta o bassa intensità (di armamenti e morti) come già in Afghanistan, Iraq, Libia, Corea, Indonesia, paesi africani. Inoltre Limes avverte i lettori su come l’attuale guerra induca ad abusivi paragoni con quella del 1914, “quasi fossimo condannati a ripetere errori e orrori dei nostri avi, prigionieri di presunti cicli storici. Il determinismo è alibi. Nessuno ci impone di riprodurre il passato, nemmeno in rima” (pag. 20), e ricorda come la storia dimostri l’irrealtà del determinismo storico (pag. 26), cosa che vale anche per la guerra del 1941-43.

In riferimento alla tesi del noto statista americano Limes stigmatizza che “lo storicismo di Kissinger aspira a determinare le regole dell’ordine mondiale per temperare gli orrori dell’umanità” (pag. 24). A proposito poi del nuovo strumento di comunicazione, internet, l’avviso è di fare attenzione e invita ciascuno a dotarsi di uno speciale tipo di paraurti mentale personale, perché “Internet è un mezzo che crea nicchie di consenso dove le emozioni si esaltano, la rabbia si autoalimenta e le identità si fanno sempre più affilate” (p. 84).

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