di Sebastiano Saglimbeni
“Allontanatevi di duecento metri dalla via Ruggero Settimo, dalla via
Girolamo Li Causi
Maqueda, andate alla Albergheria, in via Castro, andate al Capo, al
Borgo, alla Magione, andate in quei vicoli, andate in quelle zone buie
dove appena vi affacciate il fetore vi prende per la gola, dove i
bambini, cu è ciuncu e cu è malatu, dormono nelle ‘pile’ che diventano
così culle!”.
Una proposizione esclamativa, questa, estratta da uno dei numerosissimi discorsi, densi e infuocati, che pronunciò, dal 1944 al 1960, Girolamo Li Causi per denunciare il grave malessere in Sicilia, in una città come Palermo. Sono trascorsi diversi anni da quando questo politico parlava nelle sedi parlamentari, nelle riunioni, nei convegni e nei congressi del Partito comunista italiano, di cui era stato un dirigente e un militante integerrimo. Va onorevolmente ricordato: per quei diversi anni di carcerazione subita sotto il regime fascista, per le battaglie in difesa degli eterni calpestati e per il suo pensiero scritto, semplice, puro e illuminante custodito in due piccoli volumi editati dall’Istituto Gramsci Siciliano, a cura di Francesco Renda e Giuseppe Cardaci. Va onorevolmente ricordato un uomo, proprio oggi mentre si intensificano la disoccupazione, la povertà e l’attesa penosa di un enorme fronte giovanile e non solo giovanile.
“Considerata da questo angolo visuale della permanenza dei problemi non ancora risolti, la parola del comunista Li Causi non può dirsi pertanto né spenta né inattuale”, affermava lo storico Francesco Renda nell’introduzione al pensiero scritto sopraccennato. E vale oggi quanto scriveva Renda, perché in vero si legge fresca ed attuale la parola che ci ha trasmesso Li Causi, pure strenuo difensore delle donne, quelle eroiche, mogli dei lavoratori nelle miniere, quelle che, rimaste sole, misere ed offese durante la guerra, sostituirono gli uomini nelle fatiche campestri, quelle che subito dopo lottarono per assurgere, quanto l’uomo, a cariche importanti, quelle che soffrirono per il futuro dei loro figli. Non sono oggi, pertanto, i discorsi riletti di Li Causi, rovesci di parole retoriche e superate, perché si sta ripetendo l’umiliazione della donna che “deve portare ogni giorno da mangiare ai suoi uomini” e non può “ se soldi non ce ne sono” e vede buio, solo buio nel futuro dei figli. Per la donna, scriveva Li Causi: “Donna siciliana, non aspettare dagli altri la tua liberazione e la difesa della pace della tua famiglia. Col voto, con l’organizzazione, con la lotta, la liberazione della donna deve essere opera della donna stessa”.
Si accennava sopra ai diversi anni di carcerazione subita da Li Causi. Egli li ricorda in un discorso rivolto agli operai di Palermo, mentre muove delle critiche ad un questore, che si ostinava a commettere ogni sorta di arbitrio contro i lavoratori e le loro organizzazioni. Era già caduto il fascismo ma il funzionario credeva di esserne investito e protetto da un altro rinato per bloccare le dimostrazioni dei lavoratori disoccupati. Si sentano le parole di Li Causi: “Io non conosco personalmente questo funzionario, perché non voglio trattare con funzionari che non sanno assumersi la loro responsabilità.
In quindici anni di galera, ne ho visti di funzionari, direttori di carceri e di confino, e so di che pasta sono fatti. C’erano di quelli che quando dicevano no, dicevano no. Dicevano: il regolamento sono io. Non c’era niente da dire, perché se in quel momento si discuteva con il direttore del carcere, quello chiamava un agente, ti mettevano le manette, poi ti facevano il “Sant’Antonio’, dopo averti avvolto in una coperta per evitare che rimanessero i segni (…). Sapevamo che il direttore aveva il mandato di mortificare i comunisti, di far sì che uscendo dal carcere, fossimo degli stracci e non più dei combattenti”. Il discorso è una ricca testimonianza, “una pagina di antologia, meritevole di essere meglio conosciuto”, scriveva Francesco Renda.

Quindici anni di galera al comunista Li Causi, complici quelle leggi di un dittatore, la rovina totale del nostro Paese. Quindici anni di galera che lo motivarono, in piena lotta partigiana, di proferire parole di non perdono, ma di morte nei confronti di un alto ministro del fascismo e di contestare, a guerra finita, con il ritorno di un altro potere clerico-fascista, con ministri come Mario Scelba, definito “piccolo uomo testardo” che “si illude di poter arrestare il corso della storia, l’esigenza più profonda che c’è nell’anima dell’uomo, l’esigenza della giustizia”. Un uomo, Li Causi della stessa tempra del suo contemporaneo Francesco Lo Sardo che il regime fascista condannò ad otto anni di galera. Li Causi sopravvisse e continuò le sue battaglie, Lo Sardo morì nel 1931, dopo cinque anni di carcere per mancanza di cure.
L’abbiamo ancora scritto e continuiamo a scriverlo per non dimenticare.