Quella poesia in memoria

Letteratura e antifascismo

Quella poesia in memoria

di Sebastiano Saglimbeni

a Sostine Cannata, in nome della Poesia.

Giovanni Pascoli

Quella poesia in memoria. L’esercizio iterato ebbe inizio nelle Scuole elementari di quell’ennesimo tragico anno 1939. In seconda classe, di circa 25 ragazzi, rosei e sani, miseramente vestiti,  apprendemmo a memoria la poesia “Orfano” di Giovanni Pascoli, che pure fu un orfano. Ed aggiungemmo alla lingua dialettale dei padri contadini ed artigiani la lingua italiana. L’ “Orfano”,  di otto endecasillabi con rima, recita:

Lenta la neve, fiocca, fiocca, fiocca,
senti una zana dondola pian piano
.

Un bimbo piange, il piccol dito in bocca,
canta una vecchia, il mento sulla mano.

La vecchia canta: intorno al tuo lettino
c’è rose e gigli, tutto un bel giardino.

Nel bel giardino il bimbo s’addormenta.

La neve fiocca lenta, lenta, lenta.

Una rosa di 25 ragazzi, sottratti alle obbligate fatiche campagnole nella comunità di Limina, in provincia di Messina, per non restare analfabeti strumentali  e morali, o – come si soleva dire – con gli occhi chiusi come i gatti neonati. La neve non fioccava ancora nel mese di ottobre caldo, inizio della scuola, con l’uva bianca e nera  che si pigiava  nei palmenti e con i fichi, ch’erano stati asciugati al sole, nei canestri. Quando, due mesi dopo, incominciò a fioccare, ci incorrevamo, ignari del malessere umano, nelle strade sgangherate e  recitavamo: ”Lenta la neve, fiocca fiocca, fiocca”. Sembravamo dei piccoli attori rudi, affascinati dalle parole del poeta che aveva chiamato la culla “zana” e che nei suoi versi aveva fatto cantare una vecchia per allietare il bimbo orfano piangente. Ed altre agili poesie in memoria durante i cinque anni delle Elementari. Alcuni di quella rosa di ragazzi continuammo gli studi  e fu nella terza classe della Scuola media inferiore che apprendemmo a memoria la poesia “L’aquilone” di Giovanni Pascoli.

Meglio venirci con la testa bionda
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co’ bei capelli ad onda
tua madre adagio per non farti male
.

Concludevamo con questi versi, un po’ sorridenti, la recita del lungo e suggestivo testo, tra i più eccelsi del poeta.

Gli aquiloni, gli aquiloni, che sostituirono i nostri aeroplani di carta, strappata dai quaderni scritti, dopo che ci ingegnammo a costruirli  per farli aleggiare nell’aria. Seguì il testo, tanto antologizzato, “San Lorenzo”, pure a memoria e con tanto di parafrasi e commento.

Giosuè Carducci

Di Giosue Carducci a memoria il testo “Pianto antico” e  in noi certo  sentimento di dolore, ma, nelle scappate fuori di casa in autunno, avremmo voluto inoltrarci in un orto della comunità per strappare all’albero rigoglioso, che si spandeva sul muro di cinta, dei melagrani stranamente aperti. Pure il sonetto a memoria “Funere mersit acerbo”. Conoscevamo un po’ di latino, ma non sapemmo  il perché di quel titolo singolare nella lingua dei padri latini.

O tu che dormi là su la fiorita
collina tosca, e ti sta il padre accanto;
non hai tra l’erbe del sepolcro udit
pur ora una gentil voce di pianto?

Il fascino lirico, la rima delle due quartine e delle terzine, ci aveva conquistato. Nemmeno durante l’anno della maturità, con questo testo in programma, venne fuori una spiegazione. Diverso tempo dopo quando  io insegnante di materie letterarie mi ero deciso a tradurre nella nostra lingua, oltre alle Ecloghe e alle Georgiche, l’ Eneide di Virgilio,  lessi dal VI libro, verso 429, “abstulit atra dies et funere mersit acerbo”(un nero giorno portò via e sommerse in una immatura morte). Carducci, che conosceva profondamente l’opera di Virgilio, al quale aveva dedicato un sonetto, pensò a quei bambini del VI libro morti immaturamente come il figlioletto.

Giacomo Leopardi

Quella poesia in memoria. Ne sto ricordando  un po’ di   poeti che conquistarono le nostre menti  con i loro versi. Nelle due classi del ginnasio un po’di conoscenza di Dante e Petrarca. Del primo a memoria i sonetti dall’incipit “Tanto gentile e tanto onesta pare” e “Venite a intender li sospiri miei”, del secondo “All’Italia”, dal denso tema polemologico e due sonetti. Dimenticavo prima di ricordare che durante la preparazione per sostenere gli esami di ammissione alla Prima Media imparammo, fra l’altro, di Ludovico  Ariosto a memoria l’agile e  di risposta poesia “La zucca e il pero”. Poesia che ogni tanto mormoro e penso a quelle superbe e mediocri persone o maschere che raggiunsero facilmente grandezze, ma caddero  subito nel baratro della vergogna e della nullità. Dall’abate, poeta civile Giuseppe Parini in quarta ginnasiale la conoscenza e la memoria delle  sue due odi, “La salubrità dell’aria” e “La caduta”. Pure a memoria di Alessandro Manzoni alcuni tratti lirici dei  I Promessi Sposi e i versi “La morte di Ermengarda” e de “Il cinque maggio”. Giacomo Leopardi e Ugo Foscolo più di tutti i nostri poeti furono da noi tanto intesi. Delle celeberrime poesie “A Silvia” e  “L’infinito”, dopo le ore scolastiche, alcuni di noi seduti sui muriccioli a secco ci contendevamo la perfettibilità della recita. Del Foscolo a mente i tre sonetti, “In morte del fratello Giovanni”, “A Zacinto” e “Alla sera” e le due odi, “All’amica risanata” e “A Luigia Pallavicini caduta da cavallo”, non escluso tutto il tratto de “Le urne dei forti” del carme  I Sepolcri.

Passarono degli anni ed io, insegnante di materie letterarie nella Scuola Media Superiore, consigliai ai miei discenti di esercitare la memoria della POESIA. Pochissimi furono attratti. L’amico Franco Casati, insegnante alla Scuola Media inferiore, in quiescenza di recente, aveva fatto apprendere ai suoi discenti, fra l’altro, a memoria poesie di vari autori. Credo che ancora oggi vi siano insegnanti  che invoglino i discenti alla memoria della poesia.

Ugo Foscolo

Oggi che ho compiuto novant’anni conservo  quella memoria. Così, in quest’altra esecrabile stagione di peste e di guerra, mi consolo recitando a me stesso e all’amico Giorgio Gabanizza, durante i consueti incontri,  versi. Come questi de I sepolcri .

Rapian gli amici una favilla al Sole
a illuminar  la sotterranea notte,
perché gli occhi dell’uom cercan morendo
il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce….

Felice te il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!

E se il piloto ti drizzò  l’antenna
oltre l’isole egèe d’antichi fatti
certo udisti suonar dell’Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe  l’armi d’Achille
sovra l’ossa d’Aiace: a’ generosi
giusta di glorie dispensiera è morte …

La POESIA. Che non morirà mai. Ovidio per quella grande di Lucrezio Caro aveva scritto due millenni or sono: “Carmina sublimis  tunc sunt peritura Lucrezi,/exitio terras cum dabit una dies.(Allora la poesia del sublime Lucrezio sarà destinata/ a morire quando un solo giorno distruggerà la terra).