Pablo Neruda e il suo tributo poetico all’Italia

Letteratura e antifascismo

Pablo Neruda e il suo tributo poetico all’Italia

di Sebastiano Saglimbeni

Pablo Neruda

Dalla prima versificazione che segue, ora breve ora lunga, l’incipit di queste pagine dedicate a Pablo Neruda che soggiornò orgogliosamente più volte in Italia. Poeta tanto famoso e osteggiato come il suo amico Salvatore Quasimodo. Entrambi baciati dalla fortuna per quel guiderdone ricevuto in Svezia, entrambi sanguigni e combattivi.

Lo so, lo so, non con i morti si son fatti
i muri, le macchine, le panetterie:
forse è così, non c’è dubbio, però
la mia anima non si nutre di edifici,
non riceve salute dalle fabbriche,
neppure tristezza. Il mio tormento è per quelli
che mi precedettero, che mi diedero sole,
che mi comunicarono esistenze,
e adesso che me ne faccio dell’eroismo
dei soldati e degli ingegneri,
dov’è il sorriso
o la pittura comunicativa,
o la parola che insegna
o il riso, il riso,
la chiara risata
di quelli che ho perduto in quelle strade,
in questi tempi, in queste regioni
dove io mi fermai e loro continuarono
sino alla fine del viaggio…

Un perfetto credo poetico-civile, questi versi, estratti da Elegia dell’essenza, la silloge di Neruda uscita postuma a Roma presso gli Editori Riuniti nel dicembre del 1973 e curata da Ignazio Delogu, famoso ispanista, pure traduttore di Poesie e scritti in Italia del poeta (Lato Side 57, Roma 1981). Di questa scrittura, che luoghi e persone italiani maturano in Neruda, dobbiamo occupare queste pagine ricordando anche i tratti più vivi della produzione del poeta cileno, il suo Canto generale, le Tre residenze sulla terra e le Venti poesie d’amore e una canzone disperata, i titoli più noti. E va subito detto che lettori continuano a rimproverare al poeta la troppa contaminazione della realtà, la impurezza, l’abbandono al disordine e alla disorganizzazione, la predilezione del caos di immagini e di parole. Ѐ pure vero, ma proprio da qui può nascere ed estrarsi l’oro creativo o della poesia.

Pablo Neruda il vate di una nuova società dominata, che egli va scrutando dalla sua terra cilena meridionale di nebbie, acque e dominazioni, violenze, miserie senza speranze di rinascite sociali o di riscatti degli umili, che, poi, sono solo bisognosi della poesia che si chiama pane e sorriso, come sopra recita il testo. Riscatti degli umili, anche come breve sollevazione dalla miseria e dalla sofferenza morale. Neruda, al vertice della sua notorietà nel pianeta della cultura letteraria, durante i suoi soggiorni italiani, si fa come carico di una poesia trasparente, misurata, di una poesia orientata sulla via, in prevalenza, della contestazione, della risposta. E va intesa questa causa, se si conosce quanto egli sentisse l’impegno dell’intellettuale democratico ingaggiato, non più – come nelle opere giovanili – incline ad intendere la trascendentalità. “Un’Italia solare e gioiosa”, scrive il suo studioso Delogu, “ma anche un’Italia più misteriosa e segreta era quella che Neruda amava, quella della quale parlava volentieri e dalla quale conservava anche un ricordo insieme dolcissimo e severo. Ѐ questo che può autorizzarci a parlare di un Neruda italiano, che non coincide con nessuno dei suoi libri, neppure con quelli capresi…”.
Pertanto, di seguito, citazioni delle quattro sezioni dell’opera Poesie e scritti in Italia che prendono titoli: “Versi del capitano”, “Le uve e il vento”, “Cento sonetti d’amore e una canzone disperata” e “La barcarola”.

Da “Versi del capitano”:

Oggi questo giorno è stato una coppa piena,
oggi, è stato tutta la terra.
Oggi il mare tempestoso
in un bacio ci ha innalzato
tanto che tremammo
al chiarore di un lampo
e, allacciati, scendemmo​
a immergerci senza separarci.
Oggi i nostri corpi si son fatti vasti,
son cresciuti sino al limite del mondo
e han rotolato fondendosi
in una sola goccia
di cera di meteora.
Fra te e me s’è aperta una nuova porta
e qualcuno, ancora senza volto,
lì ci aspettava.

Ricorsi, spesso frequenti nel testo nerudiano, qui alla metafora, nella “coppa piena”, nella “goccia di cera e di meteora” accompagnata da una stemperata sensualità: lui e lei. Ovvero il maschio e la femmina. Terra e mare pure protagonisti. Ma è il gioco che qui armonizza il verso in quella articolazione che è nell’iterazione avverbiale temporale. Quell’oggi, come data di tensione e di intenso.

Da “Le uve e il vento”:

Io entrai a Firenze, era di notte.
Tremai sentendo, quasi addormentato
ciò che il dolce fiume
mi raccontava. Io non so
ciò che dicono i quadri e i libri
ma so ciò che dicono tutti i fiumi.
Hanno la stessa lingua che io ho.
Nelle terre selvagge
l’Orenoco mi parlava
ed io capisco, capisco
storie che non posso ripetere.
Ci sono segreti miei
che il fiume si è portato,
e ciò che mi ha chiesto
io vado facendo a poco a poco nella terra.

Il tema riconduce alla memoria di tanti lettori il testo “I fiumi”, tanto adeguatamente scelto nei manuali scolastici, di Giuseppe Ungaretti. L’acqua scorrente accende e sviluppa la creatività, con la sua voce arcana, cifrata, dei poeti. Che sanno ancora rivolgere la loro mente tormentata di parole all’acqua. Il linguaggio dell’Arno riconduce il poeta esule Neruda al linguaggio del fiume Orenoco che il poeta conosce bene, ma non vuole ripetere le sue storie; e qui la reticenza lascia immaginare queste storie che dicono dei Paesi dell’America latina, le storie delle genti oppresse dagli europei per sete di dominio.

Ed ancora dalle “Uve e il vento”, un tratto dal testo “I frutti”:

Dolci olive verdi di Frascati
come puri capezzoli,
fresche come gocce di oceano (…)
Quel giorno l’oliva,
il vino nuovo,
la canzone,
la canzone del mio amico,
il mio amore lontano,
la terra bagnata, tutto così semplice,
così eterno, come il grano di frumento,
lì a Frascati​
i muri perforati dalla morte,
gli occhi della guerra alle finestre,
però la pace mi ricercava
con il suo sapore di aceto e di vino,
mentre tutto era semplice
come il popolo
che mi donava,
il suo tesoro verde:
le piccole olive, freschezza, sapore puro,
misura deliziosa,
capezzolo del giorno azzurro,
amor terrestre.

Come un quadro di natura morta questa espressività, tutto cantato, trovato per il frutto, l’oliva, simbolo della luce e della carne muliebre nei suoi punti erotogeni. Un piccolo spontaneo racconto anche, ma pure obbligato dal poeta ospitato, che non può non donare al popolo, un suo scambio, che diventa poesia, pure per l’Italia ferita dalla tragedia bellica.

Da “Cento sonetti d’amore”:

Mi manca il tempo di celebrare i tuoi capelli,
uno per uno devo contarli e lodarli:
altri amanti vogliono vivere con altri occhi,
io solo voglio essere il tuo parrucchiere.

In Italia ti chiamaron la Medusa,
per l’arricciata e alta luce della tua chioma,
io ti chiamo la scapigliata e arruffata;
il mio cuore conosce le porte della tua capigliatura…

Qui il ricorso al mito e alla leggenda, che riguardano la Medusa, bellissima, ma mortale, l’unica delle tre Gorgoni. Misteriosità e malia, la forza muliebre tocca Neruda, che smarrisce, ad un certo punto, il controllo del verseggiare aperto e discorsivo svoltando nel senso cifrato.

Da “La barcarola”, un tratto dagli “Amanti di Capri”. L’isola degli antichi romani perbene e degli uomini perbene di oggi rimane un’agognata enormità di pietra e di terra buttata nelle acque. Neruda, come altri artisti, vi approda e la canta, ma non proprio così.

L’isola sostiene nel suo centro l’anima come una moneta
che il tempo e il vento puliron lasciandola pura
come mandorla intatta e agreste tagliata in pelle di zaffiro
e lì il nostro amore fu la torre invisibile che trema nel fumo,
l’orbe deserto trattenne la sua coda stellata e la rete coi pesci del cielo
perché gli amanti di Capri chiudessero gli occhi e un rauco
lampo inchiodò nel sibilante circuito marino
la paura che fuggì dissanguandosi e a morte ferita
come la minaccia di un pesce pauroso da subito arpione sconfitto:
e poi nell’oceanico miele naviga la statua di prua
ignuda, allacciata dall’eccitante ciclone maschile…

E più avanti in “Descrizione di Capri”:

La vigna sulla roccia, le fenditure del muschio, i muri che intrigano
i rampicanti, i plinti di fiori e di pietra:
l’isola è la cetra che fu collocata sull’alto sonoro
e corda per corda la luce provò dal giorno remoto
la sua voce, il colore delle lettere del giorno,
e dal suo recinto fragrante volava l’aurora
abbattendo la rugiada e aprendo gli occhi d’Europa.

Capri non rimane una circostanza geografica per il consumo degli ozi, ma un’area umana, un pezzo microscopico di Europa che apporta poesia, che fa muovere le genti distendendole dentro suoni arcani, quelli della natura, estrosa e felicemente nata.

Elsa Morante

Pablo Neruda, il cui vero nome e cognome era Neftali Ricardo Reyes, nel 1939, al termine della guerra civile in Spagna, si reca in Francia e poi in Messico: qui concepisce i primi poemi del Canto general. Nel 1943 ritorna in patria, dove vi rimane sino al 1949, ma deve fuggire per evitare le persecuzioni del dittatore Gonzales Videla. Ramingo, per alcuni anni, trascorre una vita assai grama e difficile. Nel 1952 viene espulso dall’Italia, ma vi rimane in seguito alle dimostrazioni della sinistra e degli intellettuali democratici; riparte dall’Italia, ritorna ancora per un paio di volte. Nel testo “La polizia” della sezione “Le uve e il vento” annota nella seconda parte:

Ma quel giorno
in cui mi trasferivano alla frontiera svizzera
la polizia trovò d’un tratto
che le si muoveva contro
la militante poesia.
Non scorderò la moltitudine romana
che alla stazione
mi tolse dalle mani
della persecutrice polizia.

Come dimenticare il gesto guerrigliero
di Guttuso e il volto di Giuliano,
l’ondata d’ira, il pugno nel naso
degli sbirri, come dimenticare Mario,
dal quale nell’esilio
imparai ad amare la libertà d’Italia…
Non dimenticherò il piccolo
paracqua di Elsa Morante
che cade su un petto poliziesco
come il pesante petalo
di una forza fiorita
.

E così in Italia
per volontà del popolo,
peso di poesia,
fermezza solidale.
azione della tenerezza,
si è fermato il mio destino
.

Accordi diversi, di natura combattiva, resistenziale emergono da questo testo che, da un lato, è una denuncia al governo di quei primi anni del Parlamento italiano, dall’altro, vuole essere una pagina di tributo di affetti caldi agli italiani come Guttuso, pittore sulla via di una parabola ascendente, Giuliano Pajetta, il fratello di Giancarlo, e di Mario Alicata, figure di spicco nella sinistra comunista. Ma la denuncia è nel tratto del testo neorealistico, laddove quella bieca forza poliziesca colpiva gli uomini osteggianti quel potere tutto clerico-americano, così caratterizzato da Concetto Marchesi, in quegli anni, parlamentare, dopo gli anni del magistero di grande umanista. In più: la polizia si scagliava contro la parola scritta, in questo nostro caso, contro la poesia nerudiana, in odore di militanza comunista. Grande l’immagine di Elsa Morante combattiva con il suo “pecueño/paraguas”, che finisce in quella circostanza torbida “sul petto poliziesco, come un pesante petalo”.

Renato Guttuso

Gli ultimi anni del poeta sono ornati, mentre governa Allende in Cile, dalla carica di ambasciatore a Parigi e dal Premio Nobel per la letteratura. Siamo negli anni 1970 -’71. Il 23 settembre del 1973 il poeta muore all’età di 69 anni a Santiago del Cile. Un bagno di sangue, voluto dal golpe dei colonnelli di ritorno nella società dei liberi, aveva insanguinato tutto il Cile. Muore Neruda, ma non con lui le sue parole entrate nella memoria di tutti coloro che resistono alle forme della violenza di ritorno.

Durante i suoi soggiorni in Italia, la nostra gente lo colma di sincera ospitalità ed amore per la sua scrittura poetica, eloquente e di amore, fra l’altro, prediletta d’allora a tuttora qui ed altrove; Neruda, in cambio, con il suo cuore latino, fa assurgere l’Italia ad espressione di libertà, cultura, in tutti i campi, ed umanità strana, rara, la canta l’Italia con creatività concretamente pura, senza offuscare, dove occorre, la nota lirica, come in quell’ “imparai ad amare la libertà d’Italia”, in seguito a quel gesto corale dei romani.

Sopra, all’inizio del discorso, si diceva del Canto generale di Tre residenze sulla terra e di Venti poesie d’amore e una canzone disperata. Traduttori nella nostra lingua sono: per Il canto generale, Dario Puccini, per le altre due opere, Giuseppe Bellini, ispanisti, come Delogu, di prestigio. Il canto generale è stato valutato come un’esaltazione alla natura dalle connotazioni liriche ed epiche, un’esaltazione all’itinerario umano e sociale della storia riguardante l’America del Sud. Vi si scopre la radice della grandezza che il poeta fa emergere dalla favolosità del passato precolombiano.

La poesia di Tre residenze sulla terra, nella prima parte, sviluppa l’assurda ed ingiusta fragilità della vita. Si sente certo nichilismo, mentre, nella seconda parte, l’ispirazione si incentra sull’assemblea degli umili e degli sfruttati. Nelle Venti poesie e una canzone disperata si legge un tema che sviluppa un’alta tensione verso la trascendenza: un’immersione qui nella vita giovanile pura ed idealistica, ravvisabile nei contenuti come nel linguaggio. Abbiamo indicato gli aspetti delle tre grandi opere procedendo a ritroso, perché in ordine cronologico, prima nasce l’opera Venti poesie d’amore ed una canzone disperata (1924), dopo, Le tre residenze sulla terra (1923 – 1947) ed infine Canto generale (1950).

I testi poetici concepiti in Italia, pertanto, sono tra gli ultimi della vasta produzione nerudiana. E rimangono – se ben letti e confrontati con quelli precedentemente scritti, celebrati alquanto – i meno inficiati di immanenza, i meno ispirati dalla forte passione politica: rimangono testimonianze con dediche ad uomini e a luoghi d’Italia, ispirate dal nuovo, autentico mondo sociale italiano.

Nell’autunno del 1973, l’amico poeta Rafael Alberti scrive poeticamente così a Neruda:

Il più meraviglioso pianeta che creasti
fu quello dell’amore, dell’amicizia aperta
dentro il cuore come un’immensa rosa,
dove palpita tutto ciò che sfiorò
con la sua ala la sua fronte
fiumi uccelli, piante, pesci, città, uomini cordigliere –
che con te ruotano ormai senza riposo
dentro quell’orbita splendente
in cui entrarono senza uscita possibile.

Da questi versi, non scevri di quell’eccessiva predilezione per l’uomo e per la sua poesia, famosi, può in qualche modo, derivarci un ritratto di uomo e di opera nerudiani, eseguito da un poeta per un poeta, della medesima razza, dalla comune solitudine e dal comune destino, quello della persecuzione e dell’esilio, voluti da due simili governi dispotici, ostili al pensiero libero. Rafael Alberti canta il cuore del poeta cileno visto “come un’immensa rosa”, similitudine frequente nelle operazioni poetiche, di alta e qualitativa immagine poetica. E Neruda (non si conosce la data, se anteriore o posteriore al testo di Alberti), come quando si restituiva un pane imprestato alla vicina di casa, la parente, la comare, l’amica, scrive, dal canto suo, fra l’altro, con lo stesso empito latino, per Alberti.

E leggiamolo nella sua opera, una sorta di lavoro saggistico, Confesso che ho vissuto (Einaudi, Torino, 1998): “Per noi che abbiamo la gioia di parlare e di conoscere la lingua di Castiglia, Rafael Alberti significa lo splendore della poesia nella lingua spagnola. Non è solo un poeta innato ma un saggio della forma. La sua poesia, come una rosa miracolosamente fiorita in inverno, ha un fiocco della neve di Góngora, una radice di Jorge Manrique, un petalo di Garcilaso, il luttuoso profumo di Gustavo Adolfo Becquer”.