
di Nino Gussio –
Sì avvicina l’anno nuovo e l’ottimismo del cuore ci spinge ad augurare un futuro buon anno ma il pessimismo della ragione ci fa temere un futuro distopico con tutti i mali del passato e forse peggiori.
E’ difficile non essere pessimista, la distopia è già nel presente, tutti gli orrori del passato si sono replicati con una maggiore frequenza e recrudescenza e nessun male presente fin dalle origini della storia è stato debellato, lo sappiamo grazie all’informazione globale dei mass- media che tracima in ogni angolo della terra.
Se la convivenza sociale e tra i popoli è dominata dalla violenza, dalla precarietà esistenziale, dalle oppressioni dei diritti della persona e delle etnie, se i legami affettivi sono diventati più problematici, se i valori dell’umanesimo laico e religioso sono in crisi è conseguenziale il sentirci esuli in una terra straniera e che non possiamo più avvalerci delle care abitudini come augurare bene ai nostri cari, a noi stessi e voler affermare con le feste che la vita è bella e magari sacra e santa… se non fosse costantemente minacciata e violata.
La critica della ragione ci fa considerare che l’ottimismo del cuore è un pio desiderio ed è vantaggioso optare per il cinismo nelle attività e nelle relazioni quotidiane perché più utile alle convenienze e alle opportunistiche casualità. Ma sentimento e ragione formano la persona e se scissi producono alienazione e smarrimento.
Nessuna illusione ci è consentita per nascondere gli orrori perennemente in atto, la responsabilità è un dovere morale necessario se vogliamo raggiungere una salvezza. Il futuro anno buono o cattivo non è inscritto nelle costellazioni, non è secondo fortuna, che ovviamente è concepibile solo a livello individuale, nasce dal pur problematico presente, dalla condivisione del progettare e dell’agire per il bene comune che ad oggi abbiamo trascurato e demandato a poteri che solo teoricamente hanno gestito con lealtà e competenza a nome nostro.
Se guardiamo al passato storico, al presente tempestoso scopriamo che l’assenza del bene, della responsabilità collettiva è rimarcata dalle ipotesi introdotte dai se; non abbiamo agito per operare secondo l’etica del bene ma riflettendo con i se sugli atti mancati ci rendiamo conto dell’indifferenza morale dello stare nel mondo (questo sterile processo mentale dei se per evidenziare le mancanze, le viltà si chiama ucronia ed è un modo per far emergere le distopie di sempre.
L’ultimo libro di Carrère è di tal genere e per lui ha rappresentato un ripiego letterario perché non sa interpretare questa realtà.
Nonostante l’incapacità nel costruire un mondo migliore, non siamo necessariamente costruttori di inferni, al limite di purgatori più o meno infelici. Ma dai purgatori si può uscire, non sono concentrazionari, se diamo ascolto all’amore che per istinto abbiamo per la vita.
L’infelicità non è una ineluttabile condanna divina, naturale, le possibilità del bene sono prefiguranti e alla nostra portata, basterebbe liberarsi dalle paure indotte dagli egoismi e dai pregiudizi autolesionisti. Non abbiamo bisogno di delegare il nostro destino ai potenti manipolatori di interessi economici e di verità esistenziali, siamo noi i custodi del mondo, gli artefici del tempo vissuto, e di quello imminente, il 2026 che già ci dice che la sua bontà dipende dal nostro essere per gli altri.
Cercare salvezza, raggiungerla non è questione personale ma di tutti, dipende dalla saggezza del cuore e della mente in sintonia che ci consiglia comunque di augurare buon anno perché la speranza è connaturata all’esistenza ed è contro ogni pessimismo.