L’umile Resistenza operaia

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di Angela M. Trimarchi

L’ANPI Messina jonica incontra Guido Lorenzetti

L’ultima delle dodici storie di Guerre, deportazioni, dittature, eroi di Guido Lorenzetti parla delle volenterose carnefici di Hitler e conclude «con alcune donne vicine ai partigiani che furono indotte a tradire per sfuggire alle torture o per ricatti.

Una di queste fu Elda Colombini di Milano. Scaricata dall’amante Domenico Viotto, rappresentante del PSIUP nel CLN di Milano, corse a denunciarlo. Il partito lo spedì in fretta e furia in Svizzera e lo sostituì presso il CLN con l’irreprensibile Andrea Lorenzetti, mio padre».

Pietro Nenni nel suo diario, indata 11 maggio del 1944, raccontacome l’amica di Viotto denunciòalla Gestapo il suo amante che voleva abbandonarla. Aggiunge: «Era una miserabile, una ladra e ricattatrice e, nonostante ciò, la mise al corrente di ogni più delicata attività del partito. Io stesso l’avevo pregato di allontanare quella donnaccia. Non volle o non seppe ascoltare la voce del buon senso e dell’onore. E quando si decise a lasciarla, ella era in grado di fare a tutti molto male e non esitò un istante a farlo. Poi, pentita della denuncia, corse ad avvertire V. che compì l’ultimo e il più irreparabile errore e invece di strangolarla fuggì con lei in Svizzera. Gli volevo molto bene e molto contavo su lui e sulla sua energia. Né riesco a capacitarmi del come abbia potuto scendere così in basso. Tremendi scherzi del cuore e del sesso!». Poi, poche righe più avanti, annota che lo spionaggio è sempre la causa dell’arresto di Andrea Lorenzetti, tra i migliori.

Nelle parole di Nenni si avverte la grande delusione per Viotto, che non aveva imparato dai propri errori, aprendo una falla nella sicurezza dei militanti del partito.

Il Partito Socialista di Unità Proletaria era nato in quel tormentato 1943 per volontà di Sandro Pertini, Lelio Basso e Pietro Nenni, appena liberati nell’agosto dello stesso anno. Pertini era confinato a Ventotene, Basso nel campo di concentramento di Colfiorito (Perugia) e Nenni a Ponza, dopo quasi vent’anni di esilio.
Ed a Ponza era arrivato Mussolini, più stordito che rassegnato, tra due carabinieri qualche giorno dopo il 25 luglio 1943. Entrambi confinati nella stessa isola: Nenni per volontà di Mussolini e Mussolini per decisione del re e delle camarille di corte militari e finanziarie. Dalla sua finestra Nenni vede Mussolini, anche lui alla finestra, a Santa Maria nella villa del ras, così chiamata perché aveva ospitato il ras Imerù.

Per uno scherzo del destino si ritrovano entrambi prigionieri come in quel lontano 1911, quando quello scatolone di sabbia, la Libia, li aveva uniti. Nelle parole di Nenni soprattutto la condanna verso un Mussolini, vinto, un eroe d’annunziano rotolato dal suo trono di cartapesta che morde la polvere. Mussolini aveva tradito, con il suo nietzschiano disprezzo della massa, l’idealità socialista di una rivoluzione proletaria orientatala alla eliminazione della borghesia capitalistica, nazionalista e imperialista, che mira solo all’accumulazione tra vecchie e nuove forme di colonialismo, di sfruttamento, di razzismo e di antisemitismo.

Ma chi aveva fatto rotolare nella polvere quell’eroe di cartapesta?
Gli alleati erano sbarcati il 10 luglio del 1943 in Sicilia, ma la fine di Mussolini – secondo E. Montali e M. Gambilonghi – è segnata da quel proletariato, cresciuto contro ogni sua previsione e nonostante la sanguinosa repressione negli anni del regime.

Nel febbraio dl 1943 la vittoria dell’Armata rossa a Stalingrado aveva alimentato speranze e offerto un arsenale simbolico che aveva rafforzato la coscienza operaia. «La fabbrica, che lavorava per la guerra diviene ontologicamente uno spazio politico. Le fabbriche sono il cuore dello sforzo bellico, sono loro che producono tutto ciò che necessita all’esercito combattente: armi, munizioni, vestiti, logistica».

Le operaie e gli operai in fabbrica hanno lo stesso valore che i soldati al fronte. Solo che un soldato è sostituibile, un’operaia/un operaio no, soprattutto quando è un lavoratore altamente specializzato.

Gli scioperi e i sabotaggi del 1943, soprattutto di operaie poi confluite nel Gruppo di difesa delle donne (GDD) ferocemente punite dal nazifascismo e internate a Ravensbrück, orientarono la politica del governo Badoglio e lo costrinsero nell’agosto del 1943 a quelle concessioni prima negate, come la liberazione dei prigionieri antifascisti e la richiesta di condizioni migliori di lavoro.

Era la vittoria della coscienza di classe, che aveva avuto la meglio su un corporativismo che avrebbe voluto fare dell’operaio il docile strumento di un totalitarismo imperfetto (Hannah Arendt).

Il totalitarismo mussoliniano era imperfetto perché si era realizzato, in convivenza con la monarchia sabauda e lo Statuto Albertino, eliminando con le manganellate i dissidenti. Nonostante le sue previsioni, dopo l’uccisione di Matteotti, che aveva denunciato i brogli nelle elezioni del 1924, Mussolini non riuscì a far tacere la coraggiosa opposizione dei deputati di sinistra. Tra questi Francesco Lo Sardo, segretario della Camera del Lavoro di Messina, primo deputato del Partito comunista in Sicilia nelle elezioni del 1924, che aveva saputo riunire presso la Camera del lavoro tutti gli antifascisti di qualsiasi colore politico.

Il discorso che probabilmente ne decretò la fine fu quello fatto durante la discussione sullo stato di previsione della spesa nella giornata del 2 giugno del 1926: «Quando il vostro Duce era il nostro (ride) ha tradotto un libro dal quale ho tratto un ammaestramento…»

Mussolini: «Lasci perdere quella roba» e Lo Sardo: «Lo so che lei ha sorpassato quella roba, ma quella roba ha dato a me un ammaestramento (…): “Coloro che hanno la coscienza ferma nella necessità della rivoluzione sociale persistono tetragoni nella loro fede”. Ed è per questo che io permango nella mia fede comunista».

Il 1° novembre del 1926 Lo Sardo sarà aggredito in casa da un pugno di fascisti, che fracassate le finestre esterne e frantumati i vetri delle porte e delle vetrine del suo studio, penetrarono nel suo domicilio.

Il 6 novembre anche Gramsci sarà arrestato a Roma.

Con Lo Sardo e Gramsci si estingue l’opposizione politica in Parlamento, ma l’azione da loro esercitata presso le masse nell’educazione all’utilizzo di strumenti democratici di lotta non si arresta.

C’è un Lo Sardo coerentemente vicino agli operai, contadini e artigiani uniti nei Fasci dei lavoratori (perché un bastone tutti lo rompono ma un fascio di bastoni nessuno lo rompe) a Messina e provincia già dal 1889, che insegna loro che è possibile ottenere miglioramenti salariali e occupazionali, con lotte pacifiche, mobilitazioni (passeggiate), scioperi e occupazioni contro gli abusi degli agrari, poi entrati compatti a formare il quadro dirigente dello squadrismo fascista. Questi lavoratori, nella quasi maggioranza, non sono persone acculturate o politamente inquadrate, ma sanno ascoltare chi con linguaggio semplice indica loro la strada dei diritti.

La durissima reazione crispina delle agitazioni contadine del 1893 fu terribile, ma non riuscì a distruggere questo primo legame tra intellettuali e subalterni. Non scalfì la forza di questa «rivoluzione» (Gramsci, Quaderno X).

L’invasione del municipio di Limina in provincia di Messina nel dicembre del 1935 per protestare contro l’applicazione dell’imposta di famiglia in sostituzione della tassa sul valore locativo è un esempio emblematico. Vi parteciparono, tra gli altri, Carmelo Manuli e Antonino Spadaro, entrambi agricoltori.
Di Limina era anche Carmelo Chillemi, sarto, comunista, residente a Messina, notoriamente uno dei principali collaboratori di Francesco Lo Sardo, con il quale si manteneva in contatto per quanto riguardava l’organizzazione del partito e principalmente per l’opera di assistenza ai compagni disposta dal soccorso rosso internazionale.

Furono mandati tutti al confino: i politici e anche umili militanti di tutte le correnti dell’antifascismo.

Senza tante formalità, con la legge del 1931 era possibile eliminare quanti contrastavano o avevano intenzione di contrastare la politica del regime. Ironizzare o raccontare barzellette, partecipare al funerale di un comunista, festeggiare il primo maggio erano la causa della condanna al confino, che spesso era la prosecuzione del carcere: carcere e confino si alternavano per coloro che erano definiti pericolosi.

Il dissenso coraggioso degli umili, anche in Sicilia, aveva permesso di saldare laloro causa a quella nazionale e persino a quella europea. (Salvatore Carbone eLaura Grimaldi. Il popolo al confino. La persecuzione fascista in Sicilia. Prefazione di Sandro Pertini, Roma 1989) Lo Sardo confinato a Turi di Bari ritrova qui nel 1930 Gramsci.

Stessa sorte e stessa idea di partito e di sindacato nelle parole di Antonio Gramsci: «non solo può dirsi di massa per l’influenza che esso esercita su larghi strati della classe operaia e della massa contadina ma perché ha acquistato una capacità di analisi delle situazioni, di iniziativa politica e di forza dirigente che nel passato gli mancavano. La classe contadina meridionale è, dopo il proletariato industriale e agricolo dell’Italia del Nord, l’elemento sociale più rivoluzionario della società italiana.

(…) E per il nostro partito la Confederazione generale del lavoro costituisce in Italia l’organizzazione che storicamente esprime in modo più organico queste accumulazioni di esperienze e di capacità e rappresenta quindi il terreno entro il quale deve essere condotta questa difesa» (III Congresso di Lione 1926).

Francesco Lo Sardo era arrivato a Turi in condizioni terribili, era dimagrito di dieci chili. La notizia delle sue gravi condizioni di salute aveva varcato i confini nazionali. Gramsci non godeva di migliore salute. Pertanto, il ministero, per tranquillizzare l’opinione pubblica, dispose un’ispezione tecnico-sanitaria. L’incaricato riferì che «le celle occupate dai condannati Gramsci e Lo Sardo erano ampie (mc.100, 80 ciascuna), espose a mezzogiorno e ultra-sufficienti».

Era un modo ridicolo di mistificare la realtà e mettere a tacere la stampa estera, che però non tacque. Francesco Lo Sardo, come scrive l’Humanitè, “tué légalement (ucciso legalmente!) “dans la prison italienne de Turi” (in realtà Poggioreale) il 30 maggio 1931.

Ed a Turi fu confinato anche Sandro Pertini, che una mattina incontra in cortile Antonio Gramsci. Racconta che vide una bella testa da Danton su un corpo di pigmeo, gobba davanti e dietro. Gli disse: «Scusi lei è l’onorevole Gramsci?». E Gramsci: «Che fai mi dai del lei? Non sei antifascista anche tu?». Fu l’inizio di un’amicizia sincera tra un comunista e un socialista, che condividevano la speranza di riunificare tutte le forze antifasciste.

Gramsci, già gravemente ammalato, morirà nel 1937. Il teorico dei consigli di fabbrica continuerà a studiare e scrivere (Lettere dal carcere e Quaderni del carcere) fino alla fine, senza mai venir meno alla sua missione di educazione di un proletariato, sempre più coeso e consapevole dei propri diritti. Pertini che era confinato a Pianosa dirà: «Le masse popolari hanno perso un grande dirigente!»

L’idea tutta gramsciana di un partito fatto di intellettuali che debbano mescolarsi attivamente alla vita pratica come costruttori, organizzatori, persuasori permanenti, sopravvivrà nell’intellettuale organico Pertini e nelle sue azioni politiche. Si pensi a quella sera del 16 maggio 1955 quando giunse a Sciara insieme a Giorgio Napolitano, il giorno della morte di Salvatore Carnevale, bracciante, sindacalista, socialista, ucciso dalla mafia proprio per la sua attività sindacale in difesa dei contadini delle Madonie. Fu Pertini ad accompagnare Francesca Serio, la madre di Salvatore, negli uffici giudiziari di Palermo, dove la donna presentò denunzia per un omicidio mafioso, indicando i nomi e i cognomi. Era la prima volta nella storia del nostro paese.

Intellettuale organico è anche Andrea Lorenzetti, che con lo pseudonimo di Giordano de Andreis, rappresentante del PSIUP clandestino nel CLN, è l’animatore della seconda ondata di scioperi nel 1944. Scioperi che colpiscono l’immagine bellica della RSI, demistificandone il collaborazionismo e delegittimando l’occupazione tedesca.

Il 1° marzo migliaia di operaie e operai interrompono il lavoro sfidando la polizia fascista e l’esercito di occupazione nazista. Incarcerazione, torture, deportazioni non indeboliranno la forza prorompente e coraggiosa di queste donne e questi uomini.

Nel comunicato di Radio Londra del 9 marzo si avverte la sorpresa per la dimensione degli avvenimenti.

Secondo una citazione di Guido Lorenzetti, un articolo del New York Times, giornale che certamente non nutriva molte simpatie per il movimento, recita: «in fatto di dimostrazione di masse non è avvenuto niente nell’Europa occupata che si possa paragonare alla rivolta degli operai italiani. È una prova impressionante che gli italiani disarmati sono sottoposti a una doppia schiavitù». Il popolo italiano stava dando prova di riscatto e di consapevolezza politica. Ovviamente la stampa italiana taceva o minimizzava la potenza della protesta.

L’entità degli scioperi del ‘43 e ’44 rappresenta un elemento distintivo della Resistenza italiana da quella europea.

Lorenzetti è arrestato il 10 marzo del 1944, condotto e torturato a San Vittore, poi a Fossoli, Bolzano ed infine a Gusen-Mauthausen. «Nel campo di smistamento di Fossoli la sua preoccupazione è quella di sostenere i compagni e di rendere meno insopportabile la vita di tutti». Commoventi le parole rivolte alla moglie, con le quali la prega di portargli dei libri. Stanno istituendo una biblioteca «perché c’è tanta gente che ha bisogno di libri, non tutti hanno la fortuna di un equilibrio interno o la possibilità di non annoiarsi mai. Ci sono qui circa 700 romani razziati in uno dei quartieri più miserabili di Roma: il Quadraro».

Si tratta di Lumpenproletariat, il proletariato straccione, nella definizione di Karl Marx. Un proletariato vittima della sottoccupazione e della disoccupazione, miserabile, avvilito da una miseria nera e con un cervello chiuso. Un sottoproletariato che Marx riteneva un intralcio per la rivoluzione del proletariato e che, invece, dovrebbe essere avvicinato nella sua dolorosa emarginazione. «I libri aiuteranno» i miserabili del Quadraro. È il 1° giugno del 1944.

Il Quadraro, popolato da gente tutta venuta dal sud, era uno dei quartieri di Roma più resistenti, un nido di vespe, poi medaglia d’oro al valor civile; un quartiere, che aveva subito il rastrellamento di 744 abitanti, poi finiti a Fossoli, per i quali Guido chiedeva dei libri.

Qualche giorno dopo però, il 4 giugno, scrive: «Per la prima volta in vita mia sono in contatto con le categorie più misere. Com’è brutta la miseria nera! Com’è triste la loro condizione, com’è chiusa la mente di questi disgraziati quasi sempre preda soltanto dell’egoismo che costituisce la loro unica difesa! Eppure, bisogna penetrare in questi cervelli chiusi, malgrado le continue delusioni, ma il lavoro di rieducazione non potrà dare risultati duraturi, se le basi non saranno quelle di un miglioramento materiale. La pratica mi dimostra quel che mi aveva detto un tempo il ragionamento: l’utopia che il rinnovamento morale deve precedere quello materiale ha segnato il fallimento del mazzinianesimo».

(Andrea Lorenzetti. Prigioniero dei nazisti. Libero sempre. Lettere da San Vittore e Fossoli, marzo-luglio 1944. A cura di Guido Lorenzetti).

Non si può leggere a pancia vuota, prima il lavoro, il pane, e poi i libri e la cultura.

ui Lorenzetti, per la prima volta a contatto con gli umili, si rende conto che il socialismo, grazie al lavoro, offre una concreta e operativa possibilità di liberazione dalla miseria morale e materiale.

Questo marzo del 1944 con questo nuovo conflitto operaio, lo sciopero generale e la deportazione operaia può essere considerato un momento di svolta della Resistenza italiana. Il nemico di classe non scompare, ma collabora con i tedeschi per non perdere le commesse.

«Il capitale internazionale – scrive Guido Lorenzetti – soprattutto statunitense, cui non pareva vero di non avere più l’impiccio delle organizzazioni sindacali, sostiene l’economia tedesca. Ford, Opel, IBM, Standard Oil, Shell».

La manodopera non manca. Insieme agli operai e operai deportati dopo il 1943 «i deportati politici e militari diventeranno lavoratori schiavi per contribuire allo sforzo bellico del Reich». In particolare, sarà questa la sorte degli I.M.I. (Internati militari italiani) in applicazione dell’accordo Mussolini-Hitler del 20 luglio 1944.

Questi deportati (circa 650.000) con coraggio riuscirono a sabotare gran parte della produzione, perché non volevano essere un ingranaggio nella macchina produttiva del nazi-fascismo.

La resistenza delle operaie, degli operai, degli umili è quindi la resistenza più rivoluzionaria, quella che attraverso la non violenza e l’astensione coraggiosa dal lavoro ha inferto un colpo durissimo alla barbarie del nazifascismo, dimostrando che il lavoro è strumento di lotta, emancipazione e di democrazia.

Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea costituente, volle sottolineare questo aspetto: «la parola lavoro, ignorata nello Statuto Albertino, torna molte volte nella Costituzione. Il lavoro come condizione imprescindibile di cittadinanza attiva. Una risposta democratica più avanzata di quella liberale».

Un sistema di welfare inclusivo e universalistico che concilia lavoro e uguaglianza, nella rimozione degli ostacoli che non ne permettono il soddisfacimento.

«Siamo ormai in un’epoca nella quale si è smarrito il profilo prescrittivo della Costituzione.

In nome dell’unica ideologia rimasta, quella liberista, e dei processi di globalizzazione si è prodotto un quadro nuovo: il lavoro è stato frantumato, flessibilizzato, privato progressivamente dei diritti e delle protezioni di uno Stato sociale in via di smantellamento. I dogmi della produttività e della competitività hanno sostituito i valori della uguaglianza e della parità dei diritti, il controllo dell’economia sulla politica ha snaturato il controllo democratico: la centralità e l’onnipotenza dei mercati hanno sottomesso la sfera politica e contemporaneamente l’hanno deresponsabilizzata nelle scelte di sostegno alle pratiche liberiste nascondendola dietro gli imperativi del pareggio di bilancio, o dei parametri che vietano politiche espansive o di sostegno sociale. E in questa contorsione del rapporto tra lavoro e democrazia, evidente nei tentativi riusciti di svuotare il diritto del lavoro e in quelli più o meno scoperti di rivedere l’intero impianto costituzionale, noi vediamo riflessa la crisi epocale nella quale viviamo: lavoro e democrazia soffrono della stessa crisi, della stessa perdita di centralità nella nostra società. In questo l’eredità della Resistenza rischia davvero di scolorire»

(https://www.fondazionedivittorio.it/sites/default/files/content-attachment/Scioperi43.pdf)

Bisognerebbe dunque che la politica, seguendo il dettato costituzionale, ridia centralità a lavoro e democrazia, con un programma condiviso, ma soprattutto con un programma.

Un programma, semplice e chiaro (troppo analfabetismo funzionale), che sappia raggiungere gli umili e gli svantaggiati, i più astensionisti.

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