Il racconto dell’incontro nella campagna nasitana di due bambine di opposta nazionalità
di Franca Sinagra Brisca

“Successe nell’estate del ’43, forse d’agosto…” comincia così il racconto dell’esperienza di guerra nel paese collinare di Naso, dell’allora bambina di sette anni Leda Origlio, oggi professoressa in pensione, mentre ne raccolgo un ricordo d’infanzia, la testimonianza qui riferita.
Anzitutto è doverosa una premessa per introdurre per cenni essenziali alcuni riferimenti di storia locale riguardanti la contrada nasitana di Cresta, dove avvenne l’episodio narrato, a confermare la veridicità di questa testimonianza orale.
La storia dei fatti svoltisi sui Nebrodi nella Seconda Guerra Mondiale è ancora oggi in fase evolutiva di approfondimento da parte dei ricercatori.
Giovanni Sardo Infirri nel suo libro “La guerra sui Nebrodi”, in cui delinea lo scontro fra americani e tedeschi, dice che “L’obiettivo principale della linea era quello di proteggere lo sganciamento verso Messina dei malconci reparti italiani dell’Assietta e dei tedeschi della 29° Panzergrenadier. Per farlo occorreva tenere sgombra la statale 116 Capo d’Orlando – Randazzo […] erano state realizzate un minimo di difese statiche in parte dagli italiani (vista la defezione di intere compagnie) in località Monterotondo di Castell’Umberto e nelle località Grazia, Cresta e Brucoli di Naso”.
Armando Donato chiarisce che “le due posizioni si incontrano in particolare sul posizionamento di alcune (MG 42) del 15° regimento tedesco granatieri corazzati del col. Ulich in località Brucoli di Naso (nella foto il masso dietro cui, secondo le testimonianze, era appostata la mitragliatrice che bloccò il primo battaglione americano)” […] “Il 3° battaglione del 30° reggimento di fanteria americano iniziò l’attacco alla Cresta di Naso conquistandola alle 18:30 dell’11 agosto ’43. Il 1° battaglione invece marciò da San Marco d’Alunzio sulle colline tra Capo d’Orlando e Cresta di Naso.
Il 71° tedesco, scrive Sardo Infirri, si ritirò quindi sulle posizioni della Linea Principale, appunto la Castell’Umberto – Naso – Zappulla, riposizionandosi in località Grazia – Cresta nelle postazioni già predisposte che consentivano di battere la fiumara e il territorio di Mirto e San Salvatore.
La Leda anziana di oggi ricorda che in quel periodo a Naso succedevano ripetuti bombardamenti notturni, preceduti da lanci di razzi luminosi per centrare meglio l’abitato di Naso. Oggi sa che venivano lanciati dai nostri nuovi alleati americani, sbarcati ai primi di luglio presso Gela e mossi, riducendo in macerie Palermo e Messina, in avanzata verso nord per liberare l’Italia dall’occupante tedesco.
Nelle case quella funesta pioggia luminosa a notte fonda era il segnale cui seguiva sempre la corsa degli abitanti per scendere dalle camere a ripararsi in cantina, chi ne aveva disponibilità. I piccolini in braccio agli adulti, tutti a tremare di paura per la durata dei boati dovuti a scoppi e crolli, col presentimento tragico di dover osservare poi lo spettacolo della distruzione al momento dell’uscita a cielo aperto.
Nella famigliola della maestra Maria Catena Arcodia, con cinque figlioli piccoli, era successo da poco un episodio allarmante, quando il marito vigile urbano era stato depredato della pistola d’ordinanza, compresa la cintura lasciandolo in difficoltà coi pantaloni, un atto attuato in spregio all’ufficialità del ruolo pubblico, segno che esso era ormai svuotato di autorità e forse concepito allo scopo di disarmare la popolazione nella nuova situazione divenuta incerta per fascisti e nazisti che da vecchi alleati ora si trovavano costretti alla difesa e in ritirata cruenta. Consapevole del pericolo diffuso, la famiglia si trasferì al completo, come molti abitanti dei centri nebroidei, in una vecchia casa agricola in contrada Cresta, mimetizzata fra gli ulivi e il frutteto, ma dotata del comfort di un pozzo e di un’aia davanti all’uscio di casa, ambiente all’aria aperta e amato dai piccoli per i loro giochi avventurosi a contatto con la natura, ignari dei pericoli bellici.
Di lì a pochi giorni un plotone di una ventina di soldati, misto di italiani e tedeschi, fece il campo nei pressi della casetta, dove cercava sostegno e magari accoglienza… di fatto imposta dalla forza del possesso delle armi. L’inimicizia fra gli occupanti e la maggioranza degli italiani divenuti ai loro occhi non più alleati ma traditori, rendeva i rapporti con la popolazione tesi per fondata reciproca diffidenza. All’avvicinarsi dei militari la madre attenta ordinava alle due figlie grandicelle di salire in camera a finestre chiuse e di non dar segni di vita. I due piccolini, Leda di sette e Paolo di quattro anni, potevano sgambettare ignari sotto l’occhio vigile della madre che simulava negli atteggiamenti indifferenti una normalità di facciata. Gli italiani si servivano dell’acqua del pozzo, i tedeschi vi si lavavano pure.
Un militare nazista, che nei giorni aveva cercato di scambiare qualche frase o cenni di gioco con Leda, una mattina l’avvicinò e aprendo il portafogli estrasse una piccola fotografia che baciò e porse alla bimba che, oggi non sa spiegarsi come, capì che l’uomo le stava regalando l’immagine cara della figlia, una bambina che sembrava avere la stessa sua età.
Come interpretare il comportamento del soldato tedesco? E’ da pensare che quel militare, forse un ufficiale, era ben informato che la situazione bellica era ormai perdente? Oppure aveva capito che la propria possibilità di sopravvivenza era praticamente persa? Oppure si preparava ad un’azione di contrattacco troppo rischiosa e di difesa ad ogni costo, oltremodo cruenta? O si trattava semplicemente di un pover’uomo semplice soldato disilluso e sconfortato, giunto alla conclusione che l’unica degna di sopravvivere e di salvarsi fosse l’innocenza dei bambini, riconoscendola uguale su ogni suolo d’Europa, quindi sia nelle bimbe italiane che nelle tedesche? Forse salvava dunque la figlia, simbolicamente nell’effigie della foto che per affetto e buona sorte aveva portato sempre aderente al suo corpo, affidandola a quel punto della storia ad un’altra bambina che potesse considerarla sorella per affinità, ambedue innocenti, scevre dall’odio irresponsabile fra popoli guerrieri e fra adulti che avevano scelto, o con il raggiro o con l’obbligo, di assumere l’antico incivile ruolo di prepotenti predatori e portatori di morte?
E’ ancora vero che ai figli si affida da sempre un futuro desiderato, che sia migliore del presente già sperimentato perché irresponsabilmente ingiusto e la professoressa Leda, affettivamente fedele alla consegna, conserva ancora la foto di quella ragazzina misteriosa incollata in una pagina del suo vecchio album di famiglia.